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Si svegliò di colpo, boccheggiando, ai sobbalzi che scuotevano l’aereo.

«È il carrello d’atterraggio» gli disse Schmidt. «Stavo per svegliarla…»

Reynaud lo ringraziò e guardò dal finestrino. Un anello di isolette spiccava, verde e bianco, sul mare.

L’aereo sorvolò l’isola più grande e alla fine atterrò con un impatto notevole: sembrava più un atterraggio di fortuna ben condotto che altro. Ma Reynaud era sempre riconoscente anche per i miracoli minimi: il purgatorio era finito, adesso poteva entrare in paradiso.

Gli scienziati vennero fatti scendere, si trovarono sotto il sole caldo e accecante dell’isola equatoriale. L’aeroporto rigurgitava di americani, molti in divisa militare cachi, gli altri in maglietta e calzoncini.

Giovanotti dalle spalle larghe, sorridenti ed efficienti, guidarono gli scienziati lungo una rampa che un tempo era una barriera corallina, sino a un edificio in cemento. Il condizionamento d’aria era tanto forte da dare i brividi. “Americani” pensò Reynaud. “Sempre così stravaganti.” Vennero controllati i documenti, raccolti i bagagli. Reynaud si lasciò trascinare su una jeep con Schmidt e un altro. «I bagagli arrivano col camioncino» disse l’autista, un marinaio dall’aria energica. Poi sistemò Reynaud sul sedile accanto al suo; gli altri due salirono dietro.

Accendendo il rumorosissimo motore, il marinaio chiese: «Siete un prete cattolico, signore?»

«No» rispose Reynaud, in inglese. «Sono un fratello laico dell’Ordine di san Domenico.» “L’ordine di San Tommaso d’Aquino” aggiunse fra sé. “E di Torquemada.”

La jeep s’avviò. «Oh, sa, me lo sono chiesto per via del vestito nero» urlò l’autista, fra i rombi del motore. «Sull’isola abbiamo un cappellano, ma non è cattolico. Il padre cattolico viene qui in aereo da Jaluit tutte le domeniche, per confessare e dire la messa.»

«Lei è cattolico?» chiese Reynaud; poi, quando la jeep cominciò a sobbalzare sulla strada polverosa, si aggrappò all’orlo del sedile.

«Ah, be’, a volte sì» balbettò il marinaio. «Sa com’è.»

Reynaud non parlò, ma pensò: “So perfettamente com’è”.

Dopo qualche terrificante minuto di una corsa folle a lato di edifici in cemento, l’autista bloccò la jeep sul ciglio della strada con una frenata brusca, stridente.

«L’Hilton di Kwajalein» annunciò.

Reynaud vide un edificio grigio, a tre piani.

«Alloggi Ufficiali Scapoli» spiegò il marinaio, mentre una nuvola di polvere corallina volteggiava sulla jeep. «In genere qui li chiamano AUS. Non voi, padre…» Tirò Reynaud per la manica e disse a Schmidt e all’altro scienziato: «Voi due starete qui.»

I due scesero; Reynaud restò seduto.

«I bagagli vi arriveranno tra un paio di minuti.» Il marinaio fece ripartire la jeep, seppellendo i due di polvere. «Per lei trattamento speciale, padre. C’è una casa su ruote tutta per lei.»

«Non sono un prete» disse Reynaud. «Dovrebbe chiamarmi fratello.»

L’autista fece una risata imbarazzata. «È buffo. Ma se proprio preferisce così… Okay. Fratello, eccoci arrivati.»

Fermò la jeep e indicò con aria soddisfatta una casa su ruote: ce n’erano una dozzina disposte in fila sul terreno sabbioso, grumi di metallo lucido sotto il sole caldo.

«Tutta per lei, pa… Ehm, fratello.»

Il marinaio entrò in casa con Reynaud, gli mostrò il lavandino e il frigorifero, i lettini piccoli come cuccette, gli armadietti incorporati, la toilette.

«Per la media di Kwaj, è il Ritz.»

Reynaud annuì, mormorò un ringraziamento. Il marinaio sorrise e accese il condizionatore.

«Le lenzuola sono qui.» Aprì un cassetto dell’armadio. «Se vuole, le preparo il letto.»

«Oh, no, grazie. Lo farò da solo.»

«Be’, ha la sua privacy e l’acqua corrente. Cosa potrebbe chiedere di più? Ci vediamo domenica, a messa.»

Reynaud annuì distrattamente quando il marinaio uscì, chiudendosi alle spalle la sottile porta di metallo. Gli parve che se ne fosse andato un cuccioletto simpatico. Reynaud restò immobile, sconvolto; ascoltò il condizionatore d’aria che ronzava, e riempiva il locale di un gelo simile a quello di un obitorio.

“Esiliato” pensò. “L’ha detto il giovane Schmidt, e ha ragione. Siamo stati tutti mandati in esilio in questo posto orribile. Io ho cercato la pace e la protezione del monastero e il papa in persona mi ha scacciato, mi ha esiliato su quest’isola infame. Qualunque cosa sarà di me, è colpa loro.”

Stoner uscì dal gelo dell’aria condizionata dell’amministrazione e si trovò nell’abbraccio caldo del sole al tramonto. Il clima era afoso, ma il caldo gli dava una sensazione piacevole dopo la secchezza dell’aria dell’ufficio, e dopo l’ostruzionismo di McDermott.

“Fatti una bella passeggiata” si impose Stoner, furibondo. “Trovati un angolo deserto sulla spiaggia e fai un’oretta di esercizi, prima di tirare un pugno alla faccia stupida di Big Mac.”

McDermott stava temporeggiando per la missione di rendezvous. Non aveva ancora raccomandato l’idea a Washington, e non voleva permettere a nessun altro di inviare la raccomandazione. Stoner aveva trascorso un’ora a discutere con lui, senza risultati.

“Perché il progetto non gli va?” si chiese Stoner per la ventesima volta. “Perché diavolo non può…?”

Poi vide Jo: uscita dal centro computer, stava percorrendo l’unica strada dell’isola, nella sua direzione.

«Ciao, Keith» gli disse allegramente. «Come…?» Vide l’espressione rannuvolata sul viso di lui. «Wow! Chi ti ha pestato i calli?»

«Il tuo amico McDermott» mugugnò Stoner.

In volto di Jo si contorse per la rabbia. «Il mio amico, eh? Cosa sta combinando?»

«Le solite puttanate. Tira in lungo finché non sarà troppo tardi per fare quello che va fatto.»

Lei gli lanciò un’occhiata ironica. «Dev’essere il caldo. Big Mac è spompato.»

Ignorando i sottintesi, lui borbottò: «Anche a me piacerebbe spomparlo. Completamente.»

«Non ha ancora accettato l’idea del rendez-vous?» chiese Jo.

«Non vuole nemmeno parlarne con Washington.»

«Be’, è un’impresa un po’ balorda.»

«Siamo qui per entrare in contatto con un visitatore extraterrestre intelligente, e mi parli di imprese balorde?»

«Tu prendi tutto troppo sul serio» disse Jo, alzandosi in punta di piedi a battergli un dito sul naso. «Rilassati. Calmati. Visto che siamo qui, potremmo anche godercela.»

Lui allontanò la mano della ragazza, quasi fosse un insetto noioso. «Siamo qui per entrare in contatto con quella nave.»

«Lo so.»

«Che figura ci facciamo se quella maledetta cosa sfiora il nostro pianeta e se ne va?»

«Non succederà» disse Jo.

«Tu hai già predisposto tutto, eh?»

«No.» Lei scosse la testa. «Però ti conosco. Riuscirai a farcela, in un modo o nell’altro. E farai fare una bella figura anche a Mac.»

«E la tua carriera non ne risentirà, eh?»

«Perché credi che sia qui?»

«Perché ti ha portata Mac» sbottò Stoner.

Per un attimo, lei parve triste, ferita.

«Se solo tu sapessi» disse dolcemente.

«Un giorno o l’altro dovrai parlarmene. Anzi, meglio ancora, mettilo nel tuo curriculum. Vedrai come s’impressioneranno alla NASA.»

«Keith, quando vuoi diventi un figlio di puttana perfetto, lo sapevi?»

«È il caldo. Mi ha spompato.»

«Vai all’inferno.»

«Non dirmi che non hai già riscritto il tuo curriculum. Lo so come funziona il tuo cervellino ambizioso.»