«Hmph. E sei diventato amico di Stoner, come ti era stato ordinato?»
Ordinato? Markov corrugò la fronte. “Adesso mi dà ordini?” «L’ho visto due volte, sempre con altra gente. Ci siamo salutati, niente di più.»
«Niente di più» ripeté lei, truce.
«Però Zworkin mi ha accettato nel comitato, per cui nei prossimi giorni dovrei vedere Stoner piuttosto spesso.»
L’espressione corrucciata di Maria si addolcì un po’, «Fai in modo che ogni eventuale impresa spaziale sia eseguita da cosmonauti sovietici.»
Scuotendo la testa, Markov si alzò col vassoio tra le mani, si diresse in cucina.
«Dove vai?» urlò Maria.
«Esco a fare due passi. Non ho sonno.» Nella camera da letto del bungalow c’erano due lettini gemelli, ma per Markov l’idea di dormire nella stessa stanza con Maria stava diventando insopportabile.
«Non svegliarmi quanto torni» grugnì lei.
Fuori, tra la brezza dolce della notte e i sospiri pacati delle palme, Markov riuscì a respirare di nuovo. “È più forte di me” pensò. “Siamo arrivati alla lotta per la sopravvivenza, e sta vincendo lei.”
Superò il gruppetto di bungalow e arrivò alla spiaggia, bianchissima al chiaro di luna. Si tolse le scarpe per passeggiare sulla spiaggia, ancora calda di sole. Il mare lambiva piano la riva, a una dozzina di metri. Nella notte, lungo la barriera corallina invisibile, udiva il respiro della risacca: un dio marino irrequieto.
Solo sulla sabbia, Markov scrutò la notte pallida di luna. “Quanto ci vorrà prima che l’oceano cancelli queste isole? Quanto ci vorrà prima che Maria e io ci distruggiamo?”
Rise, forte. Come sei drammatico! Distruggerci! Lei potrebbe spezzarti come un ramo d’albero, ma tu non riusciresti nemmeno a scompigliarle i capelli, per quanto ci provi.
Ripensò di nuovo a quei pochi attimi nel loro appartamento, quando Maria, felicissima, gli aveva annunciato di aver spezzato la vita di Sonya Vlasov. “Persino in quel momento” si disse Markov “persino all’apice dell’ira, hai capito che non devi mai metterti contro di lei.”
Qualcosa gli fece riportare gli occhi sulla spiaggia: una donna stava camminando verso di lui. Un’apparizione. Afrodite uscita dal mare. Gambe lunghe, e i fianchi snelli e il seno florido di una dea. Una camicetta bianca, spettrale al chiaro di luna, annodata sopra la vita. Calzoncini che le cingevano adorabilmente i fianchi.
Markov restò a guardarla. Lei gli si avvicinò, sorrise e disse in inglese: «Buonasera.»
Il cuore di Markov sobbalzò. S’innamorò all’istante, disperatamente.
«Buonasera a te, splendida signora. Ti sto aspettando da tutta una vita.»
Lei rise. «Sei uno dei russi, no?»
«Si vede?»
«Ti ho visto con gli altri scienziati russi» disse Jo.
«E perché io non ti ho vista? Ero cieco, oppure ti sei resa invisibile, dea?»
«Dea? Wow!»
«Afrodite, dea dell’amore e della bellezza. Io sono il tuo umile servo, Kirill Vasilovsk Markov, pronto a seguirti per deserti e montagne.»
Jo rise. «Temo proprio di non essere Afrodite. Mi chiamo Jo Camerata, e sono americana. Però c’è uno spruzzo di sangue greco tra i miei antenati, ora che ci penso.»
«Vedi?» disse Markov. «In te esiste la dea.»
Jo rise.
«E cosa ci fa da sola una ragazza deliziosa come te in questo ambiente romantico? Non c’è da queste parti qualche bel giovane pronto a scortarti?»
Lei scosse la testa. «No. Nessun giovane.»
«Che tristezza.»
«Sì…» Jo sorrise ancora. «Però ci sei tu.»
«Ah, evidentemente il chiaro di luna ti ottenebra gli occhi, deliziosa creatura. Io non sono né giovane né bello.»
«Ci vedo benissimo» disse Jo. «Sono venuta qui per farmi una nuotata. Vuoi venire con me?»
«Nuotare? Adesso? Di sera?»
«Sì. L’acqua è calda.»
«Sorprendente.»
«Non ti piacerebbe provare?»
«Ma non ho costume.»
Lei rise. «Nemmeno io. Possiamo fare un bagno a fior di pelle. Non c’è nessuno.»
«Il mio inglese…» Markov non poteva credere che lei stesse dicendo quello che aveva capito. «Nu… Nudi?»
«Certo. Lascia qui i vestiti e tuffati.»
Jo si spogliò in fretta e corse verso l’acqua. Markov s’impigliò nel vestito perché stava fissando le curve armoniose del suo corpo nudo. Alla fine, mise con cautela un piede nell’acqua tiepida: era piacevole, accogliente, invitante.
«Senti» le urlò, avanzando fino a che l’acqua non gli arrivò al petto «ma volevi fare il bagno da sola?»
«Sì, però è sempre meglio essere in due» rispose Jo. «Specialmente di sera. Di sera, gli squali entrano nella laguna.»
«Gli squali?» Improvvisamente, l’acqua parve fredda e pericolosa.
23
Hideki Takamura passeggiava sul ponte della baleniera, coperto d’un maglione di lana col cappuccio e dalla giacca a vento. Ormai la stagione della caccia alle balene era terminata, e se un aereo o una nave della Commissione Internazionale li avessero visti, il Giappone avrebbe ricevuto un imbarazzante rimprovero sotto gli occhi del mondo intero. Se non altro, quei pazzi del Comitato Ecologico se n’erano andati. Era già qualcosa. La stagione di pesca era stata povera; e così, anche se la Commissione aveva ordinato a tutte le baleniere di rientrare, loro percorrevano ancora i mari dell’Antartide, mentre le notti si facevano sempre più lunghe, nella speranza di trovare qualche balena isolata per riempire le stive semivuote.
In cielo, le nubi si aprirono, come scostate dalle mani di un gigante. Takamura guardò le stelle fredde, lontane. E il respiro gli si mozzò in gola. Il cielo era vivido di luci: cortine di bagliori rossi, verdi, viola, solcavano l’orizzonte. Le luce degli dei che danzavano in cielo.
Una paura totale attanagliò il cuore di Takamura. Tutti i lunghi anni di studio e di preparazione scientifica di cui andava tanto fiero svanirono dalla sua mente. “Questo è un segno del Maligno” pensò. “Un segno del Maligno…”
Il giorno stava morendo lentamente.
Stoner aveva cenato con Jeff Thompson in uno dei tre ristoranti di Kwajalein gestiti dal governo. Il cibo costava poco, e non offriva niente di più di quello che il prezzo prometteva. Quando uscirono, il sole era ancora alto. Stoner tornò in ufficio a studiare le ultime foto di Big Eye.
Anche con l’ingrandimento massimo del telescopio orbitale, la nave aliena era solo una macchia informe di luce, un puntolino sulla foto, una chiazza bianca sullo sfondo immutabile dell’eternità.
Quando Stoner lasciò l’ufficio, il sole stava riempiendo il cielo tropicale di spettacolari strisce rosse e arancioni. S’incamminò verso il Circolo Ufficiali, oltrepassando gli edifici grigi, massicci.
Si chiese dove fosse Jo, cosa stesse facendo; l’immagine della ragazza a letto con McDermott gli riempì la mente. Cercò di respingerla, di soffocarla, di pensare ad altro. Accelerò il passo: aveva bisogno di compagnia, di parlare, di qualcosa per togliersi quelle immagini dalla mente.
«Ah, Stoner!» Cavendish era sulla porta del Circolo con un giovanotto magro, biondo, dall’espressione cupa.
«Ti presento Hans Schmidt, del radio osservatorio olandese di Dwingeloo.»
Stoner tese automaticamente la mano. La stretta di Schmidt era tiepida.
«Dwingeloo» disse Stoner, solleticato da un ricordo. «Qualche giorno fa ho visto un rapporto dove si diceva che Dwingeloo ha captato i segnali radio l’estate scorsa.»
«Infatti. Sono stato io» disse Schmidt in un inglese impeccabile. «Però la NATO ha classificato segreto il mio lavoro.»