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Si rizzò a sedere sul letto, scosso dai brividi, coperto di sudore freddo. La testa stava per scoppiargli. I muscoli del collo erano talmente rigidi che quasi non riusciva a muovere la testa.

Solo nella stanza degli Alloggi Ufficiali Scapoli, Cavendish s’infilò la vecchia vestaglia sbiadita, si mise le ciabatte, prese una salvietta e una saponetta dal lavandino. S’avviò in corridoio, raggiunse il bagno.

A quell’ora, era deserto. Scelse una doccia e restò sotto l’acqua per diversi minuti. L’acqua era appena tiepida; più che rilassare, irritava.

Tornato nella stanza, fissò per lunghi momenti il letto sfatto e bagnato di sudore; poi, automaticamente, s’infilò una vecchia camicia e un paio di calzoncini. Era stanchissimo; i suoi occhi avrebbero voluto chiudersi. Invece, si allacciò ai piedi il suo unico paio di sandali, superò la soglia e uscì come un sonnambulo dall’AUS. Lo inghiottirono le tenebre della notte.

Raggiunse direttamente il bungalow dove abitavano i Markov, salì gli scalini e aprì la porta senza bussare.

Maria era seduta sul divano del soggiorno; aveva accanto una valigetta aperta. L’interno della valigetta era pieno di interruttori e quadranti che ronzavano piano. Un’unica luce rossa splendeva come un occhio demoniaco, furibondo.

Il viso di Maria era un insieme di stupore, incredulità e paura.

«Dottor Cavendish?» sussurrò, quasi temesse di svegliarlo.

«Sì» rispose lui. Una parte di Cavendish, sepolta nel profondo, si chiese chi fosse quella donna e cosa volesse da lui. Nella stanza era accesa una sola lampada, dietro la donna, sulla valigetta con le apparecchiature elettroniche.

«Si sieda» disse Maria.

Cavendish si accomodò in poltrona e incrociò le caviglie, appoggiò le mani in grembo, restò a fissare il nulla, con espressione vacua.

Maria, ansiosa, si passò la lingua sulle labbra. Sapeva che Kirill sarebbe tornato presto. Erano trascorse ore prima che l’apparecchio spingesse Cavendish a presentarsi lì; in parte perché, Maria lo capì in quel momento, non aveva avuto il coraggio di erogare subito l’energia necessaria.

«Non ricorda nulla di questo incontro, vero?» chiese, e la voce le tremò un poco.

«Assolutamente nulla» rispose lui, calmo.

«I riflessi esistono ancora, anche dopo tutti questi anni» si stupì lei. «La prima volta che ci siamo visti io ero solo una ragazzina, dottor Cavendish. Lei non si ricorda di me, credo. È stato in un posto che si chiama Berezovo.»

«L’o… L’ospedale…»

«Sì, sì. Lei era un paziente difficile. Però adesso non creerà difficoltà, vero? Non mi costringerà a… a farle quello che le hanno fatto… all’ospedale.»

«Non creerò difficoltà.»

«Ci darà tutta la sua collaborazione, vero?»

«Tutta la mia collaborazione.»

Maria sospirò di sollievo. «Benissimo. E adesso, per quell’americano… Stoner…»

«Gli ordini erano di scoprire quanto sapesse e poi, se possibile, eliminarlo.»

«Non ha seguito gli ordini.»

«Ho trasmesso le informazioni richieste. Eliminarlo si è dimostrato impossibile. Eravamo sotto sorveglianza continua.»

«È questo il suo unico motivo?»

Cavendish si leccò le labbra. «Gli ordini mi sembravano stupidi. Perché eliminarlo quando possiamo usare quello che sa, quello che scoprirà?»

«Si è comportato bene, dottor Cavendish.»

Le mani del vecchio si rilassarono, gli occhi gli si inumidirono di lacrime. «Io voglio comportarmi bene. Davvero. Sul serio, lo giuro.»

Maria avvertì una contrazione allo stomaco. Chiuse gli occhi per non dover più vedere il vecchio che piangeva.

Mezzanotte era passata da parecchio, ma Stoner e Markov non avevano ancora lasciato il centro elettronico. Fuori, su una parte di terreno nuda, spoglia d’alberi, due antenne gigantesche erano puntate nella notte ventosa.

Stoner e Markov erano protesi sopra le spalle del tecnico radar seduto alla consolle centrale. I loro tre visi si riflettevano vagamente al chiarore verdastro dello schermo circolare della consolle. Altri uomini e donne avevano lasciato il lavoro per radunarsi attorno a loro.

«È un segnale di ritorno, sì» mormorò il tecnico. «Però maledettamente debole.»

Lo schermo splendeva e scintillava come se fosse vivo. Cerchi gialli concentrici, sottilissimi, si stagliavano sullo sfondo verde dello schermo. Nel quadrante superiore destro del cerchio più esterno, in alto, una macchia arancione brillava debolmente.

«Non puoi centrarlo?» chiese Stoner.

Il tecnico controllò una tabella appesa sotto lo schermo. «Non ancora. Ci sono di mezzo dei satelliti. Disperderebbero i segnali e perderemmo l’obiettivo che ci interessa.»

«È “quello”?» sussurrò Markov, gli occhi incollati allo schermo.

«È quello» rispose Stoner.

Il piccolo gruppo alle loro spalle parve uscire in un sospiro collettivo. Markov si tirò la barba e vide la propria immagine riflessa sul vetro dello schermo: occhi gonfi, labbra contratte; nervoso, stupito, impaurito.

«Qual è il vettore di velocità?» chiese Stoner al tecnico. A Markov, l’americano appariva calmo, di una calma tesa, quasi si stesse dominando nel timore di esplodere se avesse perso il controllo di sé per un solo istante.

Senza una parola, il tecnico sfiorò una serie di comandi sulla tastiera che aveva davanti. Numeri e lettere apparvero sullo schermo, a fianco della macchia arancione.

«Dov’è un terminale di computer?» sbottò Stoner. «Non so dire se questi dati corrispondono alle nostre previsioni…»

«Lì c’è un terminale, signore» disse una delle donne, indicando un tavolo con uno schermo e una tastiera.

Stoner sedette davanti al tavolo e batté il codice. Sullo schermo apparve per un attimo una lunga serie di equazioni, subito sostituita da una lista più breve di alfanumerici. Stoner ruotò la sedia, guardò lo schermo radar e i simboli che vi comparivano.

«Zac!» urlò. «Perfetto! Sì, è il nostro obiettivo.»

Markov fissò la macchiolina luminosa sullo schermo radar, poi il sorriso soddisfatto di Stoner. Adesso stavano tutti ridendo, come se avessero appena visto nascere un bambino. Markov vedeva solo una macchia informe di luce e qualche numero.

«Su che frequenza sei?» chiese Stoner all’operatore radar.

I due si lanciarono in una discussione che non era più un linguaggio umano, ma una serie di numeri; e Markov distolse l’attenzione. Cercò di chiarirsi il significato di quello che era successo. Più di un’ora fa avevano fatto partire un segnale radar dalle antenne all’esterno dell’edificio. Il segnale aveva traversato lo spazio, raggiunto la nave aliena, ed era stato riflesso alle antenne. Quel puntolino di luce sullo schermo rappresentava la nave aliena.

Più tardi, quando smisero di congratularsi a vicenda e si accorsero che a quell’ora non era più possibile trovare una bottiglia di champagne, il gruppetto trionfante si spezzò. Due tecnici restarono al loro posto, gli altri andarono a dormire.

Camminando nella notte, Markov chiese a Stoner: «Cosa sappiamo adesso che non sapessimo prima?»

L’americano scrollò le spalle. «Niente. Proprio niente. Solo che l’oggetto si trova dove pensavamo dovesse trovarsi.»

«Perché tanta eccitazione, allora?»

«Perché abbiamo stabilito un collegamento» rispose Stoner, mentre superavano un gruppo di case su ruote. «Perché abbiamo uno strumento nuovo per studiarlo, un altro paio d’occhi. E occhi calibrati al millesimo. Adesso possiamo far sintonizzare sulla nave anche altri radar. Il grande impianto di Roi-Namur, per esempio. Goldstone e Haystack, in America. Persino Arecibo. Lo osserveranno su frequenze diverse, lunghezze d’onda diverse.»