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Scintille verdi e rosa avevano invaso il cielo, dita luminose che danzavano e tremavano fra le stelle.

«Co… Cos’è?» chiese l’autista, con voce malferma.

«Sta arrivando!» ululò Willie. «Ve l’avevo detto che sarebbe arrivato, e adesso sta arrivando!»

Bobby fissava le luci a bocca spalancata.

«È solo l’aurora boreale» disse Grodon. «A volte si verifica anche da queste parti. Sarà per via delle macchie solari, o di qualche altra cosa del genere.»

«È un segno!» insistette Willie. «Un segno!»

Grodon scosse la testa. «Peccato che tu non possa far apparire quelle luci anche al raduno di Washington.»

Willie rise. «Chi lo sa? Il Signore segue vie misteriose.»

Bobby era immobile accanto alla macchina, boccheggiante, stupito da ciò che vedeva e dalla capacità di suo fratello di prevedere che sarebbe accaduto.

Jo si svegliò presto. Il sole di Kwajalein entrava nella stanza, anche se lei aveva appeso una coperta sopra la finestra. La luce forte del sole si addensava lungo gli orli della finestra, incendiava la coperta sottile.

Aveva insistito per avere una stanza sua all’hotel, come tutte le altre donne non sposate. All’inizio McDermott aveva borbottato, ma ormai sembrava soddisfatto di trascorrere con lei solo una parte della notte. Jo aveva capito in fretta che al vecchio non interessava tanto il sesso quanto l’idea di possederla.

Si alzò, si lavò, si vestì, cercò di decidere se era meglio fare colazione gratis alla mensa oppure mangiare qualcosa di più decente in uno dei tre ristoranti. Con una scrollata di spalle, decise di saltare la colazione.

“Posso prepararmi il tè in ufficio” si disse mentre finiva di pettinarsi. Si passò il rossetto sulle labbra, annuì alla propria immagine riflessa dal vecchio specchio e raggiunse la finestra, per togliere la coperta.

Vide Stoner che camminava verso la mensa, la solita smorfia fredda in viso. “È sempre nel suo mondo, pensò, non ha mai tempo per qualcun altro.”

Scuotendo la testa, si allontanò dalla finestra, prese la borsa e s’avviò verso il centro computer.

L’edificio replicava, nella struttura, il gigantesco impianto IBM. Le grandi consolle dei computer, ognuna più grande di un frigorifero familiare, erano disposte a file lungo un vano centrale che si alzava per tre piani. Attorno al vano, che tutti chiamavano il Pozzo, si aprivano gli uffici, uniti da balconate a ogni piano.

Jo aveva ottenuto un ufficio tutto suo al secondo piano, da dove vedeva la balconata e il Pozzo. Era solo un cubicolo minuscolo; le pareti erano nude, di un verde asettico. La scrivania era un oggetto informe di metallo, esclusivamente funzionale, ammaccato e scrostato dal lungo uso. La sedia a rotelle cigolava e si rovesciava se ci si appoggiava troppo all’indietro, stando agli avvertimenti del marinaio che le aveva portato i mobili. Gli armadietti dell’archivio traballavano. Però il terminale di computer sulla scrivania era nuovissimo e funzionava perfettamente, il che a Jo bastava.

Il bollitore elettrico stava cominciando a fischiare quando Markov apparve sulla porta aperta e bussò discretamente.

Jo si girò, il bollitore in mano. «Ehi! Ciao!»

Lui strizzò gli occhi, «La mia istruttrice di nuoto. Allora è qui che ti nascondi di giorno.»

«Non mi nascondo. Lavoro» disse Jo. Facendogli cenno d’entrare con la mano libera, chiese: «Un goccio di tè?»

Markov sorrise, annuì, sedette su una delle sedie in metallo e plastica disposte lungo la parete dell’ufficio.

Jo prese una tazza di plastica e una seconda bustina di tè dall’ultimo cassetto dell’armadietto, versò il tè a Markov, appoggiò la tazza tra gli stampati di computer e la carta che ingombravano la scrivania.

«Non ho latte, e nemmeno zucchero» si scusò.

«Va benissimo così» disse Markov.

Jo si accomodò sull’altra sedia. Era tanto vicina a Markov che lui sentiva la fragranza della sua pelle, il profumo dello shampoo che la ragazza aveva usato.

Markov si schiarì la gola e annunciò: «Sono qui in missione ufficiale.»

«Non per un’altra lezione di nuoto?» scherzò Jo.

Lui sorrise. «Magari più tardi.»

«Okay.»

Markov sembrava impacciato, come un ragazzino al primo appuntamento. «Sì. I, ah… I radioastronomi cominceranno stamattina a trasmettere messaggi all’astronave, non appena si alzerà sull’orizzonte.»

«Lo so» disse Jo.

«Verranno inviati diversi tipi di messaggi, su parecchie frequenze.»

«Tenteranno anche coi raggi laser?»

«Stoner» disse Markov «ha chiesto a un osservatorio delle Hawaii un impianto laser molto potente. Arriverà qui tra una settimana o due.»

“Così ha vinto la battaglia per il laser” pensò Jo. “Come immaginavo.”

«Hanno anche deciso» continuò Markov «di seguire il mio suggerimento. Ritrasmetteranno alla nave i segnali provenienti da Giove che abbiamo registrato.»

«È un’ottima idea» disse Jo.

«Sul serio?» Markov gongolava.

«Certo. Un’idea eccezionale.» Lui prese la tazza di tè, bevve un sorso. «Però temo che dovremo usare il computer per parecchio tempo per tradurre i nastri che abbiamo in segnali che i radiotelescopi possano trasmettere. Mi hanno mandato a cercare qualcuno del centro computer che sia in grado di aiutarci col problema.»

«Sono nastri audio?» chiese Jo. «Il dottor Thompson non ha portato le analisi dei nastri eseguite dal computer quando ci siamo trasferiti qui?»

«Sì. Ne ho parlato col dottor Thompson. Ha tutte due le cose.»

Con un lieve cenno del capo, Jo disse: «Allora non c’è problema. Ci occorre solo un po’ di tempo per controllare i nastri del computer e accertarci che siano compatibili col linguaggio cibernetico che usiamo qui. Impiegheremo di più a compilare i moduli di richiesta che a fare il lavoro.»

Markov sospirò di sollievo. «E per quando…?»

«Ne ha bisogno molto in fretta? Al momento sto eseguendo solo lavori di routine. Potrei mettermi all’opera oggi e avere tutto pronto per domani.»

«Meraviglioso!»

Lei gli sorrise. «Dopo tutto, siamo vecchi compagni di nuotate, no?»

Lui s’imporporò in viso. «Io… Devi accettare le mie scuse per quella sera. Sai, non è che noi russi siamo famosi per essere grandi nuotatori.»

«Non c’è bisogno di scusarsi» disse Jo.

Markov era certo di sentire il proprio cuore battergli follemente in petto. «Jo… Dolcissima signora, per te combatterei coi draghi.»

«Sulla terraferma.»

«Uh, sì… Preferibilmente sulla terraferma.»

«Sei molto dolce, dottor Markov» disse lei.

«Kirill.»

«Kirill. Se dovessi imbattermi in un drago, te lo farò sapere.»

Lui le prese una mano fra le sue e la baciò. «Ti amo alla follia, mia adorata signora.»

«Oh, no» disse Jo, assumendo un’espressione grave. «Non devi nemmeno pensare una cosa del genere.»

Luì ebbe un gesto d’impotenza. «Il consiglio arriva troppo tardi. Ormai ti amo. Totalmente.»

Con estrema serietà, Jo gli disse: «Ci fossimo conosciuti un anno fa… O anche solo sei mesi fa…»

«Lo so, lo so» disse Markov, scrutando in fondo agli occhi della ragazza. «Il professor McDermott ti ha rubata. Ma è impossibile che tu prenda sul serio la storia con lui.»

«Non la prendo sul serio.» La voce di Jo era talmente bassa che lui riusciva appena a udirla.

«Allora puoi prendere sul serio me!» disse Markov, cercando di farla sorridere.

Lei non rispose, ma il suo corpo parve afflosciarsi.

Prendendole il mento in una mano, Markov le sollevò il viso, per poter guardare ancora una volta in quegli occhi meravigliosi.

«C’è qualcun altro» comprese lui.

Jo restò ancora in silenzio.