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«Ma perché McDermott si è tanto intestardito?»

«Perché sa che se venisse lanciata una missione, inevitabilmente verrei scelto io. E lui mi odia visceralmente.»

«Non è una buona ragione.»

«Per lui, sì.»

«Non dobbiamo permettergli di fare quello che vuole. Dobbiamo essere audaci. Rivoluzionari!»

Stoner, improvvisamente stanco, svuotato d’ogni energia, si appoggiò alla porta. «Cosa vorrebbe dire?» chiese.

«Dobbiamo scavalcare McDermott e dare inizio al nostro programma spaziale.»

Stoner rise. «E come facciamo?»

«Non ho ancora idee precise» rispose onestamente Markov. «Però possiamo partire da noi due, e reclutare altra gente. Creeremo un movimento rivoluzionario sotterraneo.»

Stoner capì che parlava sul serio, dietro il tono faceto. «Ci occorrerà qualcuno del centro computer per tenerci informati sui movimenti della nave» disse.

Markov sorrise. «Ho la persona giusta. Un’americana, Jo Camerata.»

«Jo?» Stoner lanciò un’occhiata tagliente al russo. «No, non lavorerebbe con me.»

«Ah, però con me sì» disse Markov.

Stoner fu invaso da un’ondata improvvisa di rabbia. Stupito delle proprie reazioni, soffocò l’ira.

Alla fine, riuscì a dire: «Okay. Lavorerete con lei.»

Markov studiò attentamente il viso dell’americano. «Allora è lei.»

«Lei cosa?» chiese freddamente Stoner.

«Quello che le vuole bene.»

«No.» Stoner scosse la testa.

«Allora perché sembra che le abbiano appena infilato un coltello nel fegato?»

«Senta, Markov…»

«Kirill.»

«Okay, Kirill. Jo e io abbiamo avuto una storia mesi fa, ma adesso è tutto finito. Morto.»

«Eppure riesce ancora a ferirvi molto bene.»

«Ferirci? Jo si sente ferita?»

Markov annuì gravemente.

«Per colpa mia?»

«Così sembra.»

Stoner cercò di valutare quel nuovo dato, che però non trovava un posto logico nella sua mente. «Non capisco» mormorò.

«Nemmeno io» disse Markov, con un sospiro. «Ne sono follemente innamorato, sai, però prevedo che non me ne verrà nulla di buono. Penso che forse anche tu ne sia follemente innamorato, ma non l’hai ancora ammesso con te stesso.»

Stoner non rispose. Il suo cervello era in corto circuito: niente output.

Markov fece un sorriso timido. «Le chiederò di unirsi alla nostra rivoluzione. Se non altro, avrò un motivo lecito per parlarle.»

Stoner si trovò solo sulla porta, confuso, incerto, perplesso.

26

La Ricerca di un’Intelligenza ExtraTerrestre (RTET) è un concetto di cui è giunto il momento. Un decennio fa all’incirca, solo pochi scienziati lavoravano in questo campo; le ricerche erano quasi inesistenti, e poche persone avevano sentito parlare della RIET. Oggi, però, centinaia di scienziati vi sono coinvolti, una dozzina di radio osservatori in tutto il mondo conducono vere e proprie ricerche, è sulla RIET si riflette in modo molto serio.

La Terra è la culla dell’umanità, e se anche noi siamo una civiltà giovanissima, emergente, ancora in fasce, siamo giunti al livello dell’adolescenza, per cui possiamo guardare oltre la nostra culla e raggiungere una prospettiva cosmica. Solo se riusciremo a comprendere appieno i rapporti che ci legano ai pianeti e alle stelle della nostra galassia, e all’universo tutto, potremo arrivare alla maturità. La RIET è un primo passo nella crescita dell’umanità…

Robert S. Dixon John Kraus
Cosmic Search — 1979

Jo stava scendendo le scale che dal suo ufficio portavano a pianterreno, quando vide il dottor Cavendish fermo ai piedi degli scalini.

Stupefatta, si accorse che appariva più vecchio di quando erano arrivati sull’isola, poche settimane prima. Il suo corpo era magrissimo, gli abiti gli ballavano addosso, il viso era segnato dalla mancanza di sonno, gli occhi infossati erano cerchiati da borse nere.

«Dottor Cavendish, si sente bene?» gli chiese.

Lui socchiuse gli occhi, la guardò. «Ah, sì… Signorina…» La sua voce si spense.

«Camerata. Jo Camerata. Lavoro qui al centro computer.»

«Oh, sì, certo» disse Cavendish. «Che stupido a non riconoscerla.»

«Posso fare qualcosa per lei?»

Lui scosse piano la testa. «Sono reduce dalla riunione settimanale col professor McDermott. Stavo raccogliendo le forze prima di avventurarmi sotto il sole.»

«Sì, qui dentro si sta meglio» convenne Jo.

«Gli inglesi non sono poi così pazzi, sa. Io odio il caldo. Anzi, penso che influisca sulla mia salute.»

«Non ha l’aria condizionata, in ufficio?»

«Oh, sì. Mi hanno sistemato in uno splendido ripostiglio del centro elettronico. Ho un condizionatore nuovissimo alla finestra. Mi si ghiaccia il tè, se lo metto al massimo. Il difficile è arrivare qui. Dovrò farmi più di mezzo chilometro sotto il sole…»

«Perché non si mette a lavorare nel mio ufficio per mezz’ora o giù di lì? Nel frattempo il sole scenderà, e il vento rinfrescherà un po’ il clima.»

«Nel suo ufficio? Oh, non potrei. Tutte le mie carte, e le mie cose…»

Jo lo prese per il braccio, ricominciò lentamente a salire con Cavendish. «I dati a cui sta lavorando sono inseriti nel computer centrale, giusto? Può usare il mio terminale, e non avrà problemi. Sarà come essere nel suo ufficio.»

«Non ci avevo mai pensato.»

Lei gli sorrise. «Lei è abituato a lavorare con la carta. La mia generazione è abituata a lavorare con l’elettronica. Tutto ciò che le serve può essere richiamato sullo schermo del terminale.»

«Sì, però le ruberò l’ufficio.»

«Io posso lavorare ovunque» ribatté Jo. «Non si preoccupi. Lì starà molto meglio.»

«Lei è di una gentilezza estrema» disse Cavendish.

Raggiunsero l’ufficio. Jo fece accomodare l’altro alla scrivania e gli mostrò come richiamare il suo lavoro sul terminale del computer.

«Meraviglioso» disse Cavendish, con un sorriso.

«Ho anche un bollitore, se le va l’idea di bere tè americano.»

Il sorriso dell’inglese s’increspò. «In bustina? Jo annuì.» Se le serve qualcosa, io sono giù a pianterreno, nel Pozzo.

«Il Pozzo?»

«È il nome che i programmatori hanno dato al vano centrale dell’edificio.»

Cavendish aggrottò la fronte. «C’è anche il pendolo?»

«Il pendolo? Come negli orologi?»

«È un racconto di Edgar Allan Poe. Il pozzo e il pendolo.»

Scuotendo la testa, Jo ammise: «Non credo… Oh, aspetti, non era un film con Vincent Price?»

“Cultura americana” rifletté amaramente Cavendish.

Scambiarono qualche altra parola, poi Jo, soddisfatta di sé come una brava figlia, ridiscese le scale. Cavendish, contentissimo, giocò col computer per qualche minuto, finché il mal di testa non tornò con tutta la sua forza, e lui per poco non si abbatté sulla scrivania.

A Washington era quasi mezzanotte. Negli uffici dell’Ala Ovest della Casa Bianca, le finestre erano ancora illuminate. I monumenti nazionali erano uno sfavillio di luci, anche se le vie del centro erano deserte. Ai turisti veniva consigliato di non uscire di notte, e loro restavano negli hotel, finché l’alba non scacciava dalle strade delinquenti e prostitute.

Il palazzo modernissimo che ospitava il quartier generale della NASA era quasi completamente al buio. Solo in pochi uffici erano accese le luci. Uno di questi era l’ufficio del vicedirettore delle missioni spaziali con equipaggio umano, il dottor Kenneth Burghar.

Jerry White aprì la porta senza bussare e sorrise al suo superiore che, sommerso dalle carte, sedeva alla scrivania.