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Camp David

La piccola stanza rustica rigurgitava di giornalisti, Non erano state ammesse telecamere, ma i fotografi assediarono l’addetto stampa che stava raggiungendo il podio.

«Okay» disse l’addetto stampa, aggiustando il microfono. «Ecco il comunicato di oggi.»

“Stamattina il presidente ha fatto colazione con il reverendo Willie Wilson, l’evangelista urbano. La missione evangelica del reverendo Wilson ha organizzato per la sera di martedì prossimo un raduno allo stadio RFK, e il reverendo Wilson ha invitato il presidente a intervenire. Il presidente ha purtroppo dovuto declinare l’invito a causa dell’urgenza di altri impegni…”

«Per esempio, l’andamento delle primarie» sussurrò un reporter, a voce abbastanza alta perché tutti sentissero e ridessero. L’addetto stampa fece una smorfia, poi tornò al comunicato.

«Il presidente si è congratulato con il reverendo Wilson per l’ottimo lavoro a favore dei ceti meno abbienti delle nostre città. L’ormai famoso messaggio “Scrutate il cielo” non è stato, ripeto, non è stato, discusso.»

L’addetto stampa fissò giornalisti e fotografi.

«Tutto qui?»

«Tutto qui. Questa non è una conferenza stampa. Non risponderò ad alcuna domanda. Copie del comunicato saranno disponibili tra una decina di minuti.»

Stoner e Markov stavano cenando assieme in mensa quando entrò Schmidt.

«Un caso triste» mormorò Markov, bevendo un cucchiaio di brodo.

«Cosa vuoi dire?» chiese Stoner.

«Non lo sai? Schmidt passa le giornate a imbottirsi di narcotici, invece di lavorare.»

Stoner guardò il giovane astronomo, che si stava mettendo in fila col vassoio.

«Narcotici? Cioè erba?»

«Marijuana, altre cose. A quanto ne so, narcotici e anfetamine qui si vendono a chili.» Markov scosse la testa, in segno di netta disapprovazione.

«Allora è per questo che non è servito a niente da quando è arrivato» disse Stoner. «Forse dovremmo ingabbiarlo.»

«Ingabbiarlo?»

«Sbatterlo in prigione. Sta facendo una cosa illegale.»

«Sul serio?» Markov era sorpreso. «Credevo che la cultura della droga fosse parte integrante della decadente società capitalista.»

«Può anche essere» ribatté Stoner, gli occhi sempre puntati su Schmidt «ma questo non significa che sia legale.»

«Le ipocrisie del capitalismo.»

Stoner guardò il russo: stava sorridendo.

Posando di nuovo lo sguardo su Schmidt, vide che il giovane astronomo aveva riempito il vassoio, era arrivato alla cassa, aveva scambiato poche parole con la cassiera, un’indigena delle Marshall; poi, rosso in viso, aveva lasciato il vassoio lì ed era uscito dalla mensa.

«Cosa fa?» si chiese Stoner.

Markov scrollò le spalle. «Probabilmente ha speso tutto in droga e si è scordato di non avere niente in tasca per pagarsi la cena.»

Edouard Reynaud sedeva allo scrittoio della sua casa su ruote, cercando di stendere una bella lettera per il cardinale Benedetto sugli ultimi sviluppi del PROGETTO JUPITER.

Lasciò cadere la penna, si sfregò gli occhi. Non gli venivano le parole. Dopo quello che Schmidt gli aveva dato quel pomeriggio, aveva ancora la testa vuota. E poi, odiava scrivere. Le equazioni sono così eleganti e precise ma le parole sono ambigue e piene di trappole.

Alzando gli occhi, vide che era già sera avanzata. La piccola lampada dello scrittoio era l’unica luce accesa nella casa.

«Mi perderò la cena» borbottò fra sé. Il cibo di quell’isola derelitta rendeva più facile rinunciare ai peccati di gola.

Un colpo alla porta fece tremare la casa su ruote. Andò ad aprire e si trovò davanti Hans Schmidt, gli occhi spenti, l’aria preoccupata.

«Non ho più soldi» disse Schmidt.

Reynaud fu colto di sorpresa. «Cosa?»

Schmidt sembrava ondeggiare leggermente, anche se i suoi piedi non si muovevano. «Soldi. Mi hanno preso tutti i soldi. Non posso comperarmi da mangiare.»

Rammentando le zanzare che potevano tenere svegli per tutta la notte, Reynaud uscì e chiuse la porta. «Vuoi dire che hai speso tutto, e adesso non ti resta niente per il cibo?»

Schmidt insistette: «Mi hanno preso tutto. Non mi hanno lasciato nemmeno gli spiccioli.»

«Vieni a cena con me» disse Reynaud, tendendo la mano verso il braccio del ragazzo. «Per oggi ti sei già riempito a sufficienza di porcherie. Devi tornare in te prima di farti del male.»

Schmidt rise. «Vieni tu da me. Ho dell’ottima erba.»

«No, no.» Reynaud lo tirò per il braccio. «Andiamo. Devi mettere qualcosa sotto i denti.»

«Credevo fossi mio amico.»

Fissando quel viso angelico incorniciato dai capelli d’oro, Reynaud ritirò la mano e disse: «Io ti “sono” amico. Ti sono più amico di quelli che ti vendono la droga.»

Schmidt indietreggiò, inciampò sul terreno sabbioso. «Sei come tutti gli altri! Vattene! Stai alla larga da me! Lasciami in pace. Io lo so chi sono i miei veri amici.»

Mentre Schmidt scompariva nella sera, Reynaud restò immobile davanti alla casa su ruote. Sarebbe stato così facile seguirlo, servirsi della droga per sedurlo. Invece, scuotendo deciso la testa, il cosmologo si avviò nella direzione opposta, verso la mensa.

“Non posso aiutarlo” si disse Reynaud. “Posso solo rendergli ancora più difficili le cose.”

Jo Camerata sedeva, depressa, al banco del Circolo Ufficiali; aveva davanti un daiquiri bevuto a metà. Era ancora presto: il club era tranquillo, quasi deserto. Probabilmente McDermott si stava chiedendo dove fosse finita, ma le mancava il coraggio di trascorrere un’altra serata con quel vecchio.

Scese dallo sgabello, s’avviò verso la toilette. Un terzetto di ufficiali in fondo al locale le sorrise e le lanciò richiami. Jo restituì il sorriso, ma non si fermò.

Entrata in toilette, il sorriso si spense. Jo sedette davanti allo specchio per il trucco e si studiò. “Sarà meglio che cominci a dormire un po’ di più, ragazza, o sembrerai una quarantenne prima di arrivare ai venticinque anni.”

Quando tornò nel locale e si guardò attorno, fu travolta da una noia improvvisa. Gli stessi uomini che si raccontano le stesse battute, pensò, e che al posto del cervello usano le palle. Uscì nella strada male illuminata, s’incamminò verso il suo hotel.

«Ti spiace se ti accompagno a casa?»

Girandosi, vide, alla luce fioca di un lampione lontano, che era Jeff Thompson.

«Oh, salve, dottor Thompson.»

«Vai a letto così presto?» le chiese lui mettendosi al suo fianco.

«Sono stanca.»

«Già. Anch’io.»

«Ha lavorato fino a quest’ora?»

«Ho fatto un salto al centro comunicazioni, per vedere se il nostro visitatore ha deciso di dirci qualcosa.»

«Niente?»

«Non un solo segnale.»

«Forse sta cercando di decifrare il nostro messaggio, come noi abbiamo cercato di decifrare i segnali da Giove.»

Thompson scosse la testa.

«Io vorrei solamente che questa storia fosse già finita, chiusa. Mi piacerebbe tanto tornare a casa.»

«Tra poco arriverà sua moglie, no?»

Thompson scrollò le spalle. «Adesso i ragazzi dicono che non vogliono perdersi l’estate coi loro amici. È difficile sradicare una famiglia.»

Jo non disse nulla. Fianco a fianco, in silenzio, percorsero diversi passi nella strada deserta.

Poi Thompson chiese: «Com’è Big Mac?»

Lei scoppiò quasi a ridere. «È vecchio.»

Thompson le afferrò una mano. «Jo, non avrei mai pensato di…»

Ma lei non lo lasciò finire. «Dottor Thompson, lei è il tipo d’uomo che il mattino dopo si odierebbe.»

«Lo credi davvero?»

«Sì.» Jo gli si avvicinò, gli scoccò un bacio veloce sulla guancia. «Lei è fatto così, ed è un peccato. Sarebbe stato molto meglio per me.»