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«Presumo di no. Non c’è fretta.»

«Certo.»

«Hai avuto successo nell’approccio al nostro buon monaco, fratello Reynaud?» chiese Stoner.

«Se ti portassi buone notizie, me ne starei qui a bere con te in questo stato d’animo lugubre?»

«Lugubre? Allora sei proprio un linguista, eh?»

«Ogni tanto.»

«Lugubre.» Stoner rigirò l’aggettivo nella mente. «Ecco l’inverno del nostro scontento…»

Markov levò il bicchiere senza troppo entusiasmo. «La nostra rivoluzione non sta andando bene, temo.»

«Be’, nemmeno la rivoluzione americana è partita senza intoppi, amico mio. Siamo nel nostro periodo Valley Forge.»

Il viso di Markov si schiarì un poco. «Giusto. Anche voi siete stati una nazione rivoluzionaria.»

«Siamo stati? Noi “siamo” una nazione rivoluzionaria» disse Stoner. «Abbiamo inventato il telefono, no? Non è stata una rivoluzione? E l’aereo, il computer, l’orologio di Topolino… Quella sì che è stata una “vera” rivoluzione, amico mio.»

«Credevo che fossimo stati “noi” a inventare il telefono» disse Markov, grattandosi la barba. «Sono sicuro di averlo letto sulla “Pravda”.»

«Okay, ti lascio il telefono. Però noi abbiamo inventato le cene già pronte per quando si guarda la televisione.»

«Una vera rivoluzione.»

«E il chewing gum.»

Brindarono al chewing gum.

Jo allontanò la poltroncina dalla consolle del computer e guardò il grande orologio alla parete del Pozzo. Erano appena passate le sei.

«Sono stufa marcia» disse alla programmatrice che le sedeva accanto. «Nove ore senza interruzioni, a parte un sandwich puzzolente.»

«E come prova di tanto lavoro hai solo qualche unghia rosicchiata» disse la programmatrice.

Jo le sorrise. “È per una buona causa” si ripeté. Tutti i calcoli extra sulla traiettoria della nave aliena erano lavoro in più, ma erano necessari per la missione di rendez-vous. “Ammesso che possa mai partire” si disse.

«Senti» disse alla programmatrice «se non ti pagano gli straordinari non dovresti farli. Saltare il pranzo è stato più che sufficiente.»

«Faccio solo quello che mi dicono» rispose l’altra, alzandosi e avviandosi alla toilette.

Qualche minuto dopo, Jo era in strada, alla luce calda del sole. Decise di fare un salto al Circolo Ufficiali prima di cena.

Non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra del locale, vide Stoner e Markov al separé d’angolo. Anzi, prima ancora di vederli li sentì.

«Alla gloriosa rivoluzione d’ottobre e a tutti i popoli rivoluzionari del mondo!» stava urlando Markov.

Stoner alzò gli occhi all’avvicinarsi di Jo. La ragazza chiese: «E una festa privata o aperta a tutti?»

Markov rispose immediatamente: «Vieni! Siediti! Unisciti al nostro funerale.»

«Funerale?» Jo si accomodò a fianco del russo.

Stoner alzò il bicchiere dal tavolo, salutò l’arrivo di Jo.

«Celebriamo il quattro luglio con qualche mese d’anticipo.» La voce di Stoner era un po’ impastata. «Credo.»

«Ma perché definirlo un funerale?»

«Melanconia russa.»

«E poi c’è la gloriosa rivoluzione di novembre» disse Stoner, ignorando del tutto le loro parole. «Ah, amici miei, quella è stata la vera svolta. Quando l’immortale Lenin è apparso alla stazione di Pietroburgo, il mondo è cambiato.»

Al loro tavolo si avvicinò una cameriera indigena dall’aria infelice, solida e robusta come un sacco di cemento. «Ancora da bere?» chiese.

Jo ordinò una pina colada. Markov era passato alla vodka liscia con ghiaccio. Stoner teneva duro con la birra.

Quando arrivarono i bicchieri, Stoner disse: «Penso che dovremmo brindare ai marine degli Stati Uniti, ai coraggiosi uomini che hanno strappato quest’isola ai fanatici difensori giapponesi nel novecentoquaranta e qualcosa.»

Scrutando prima l’uno e poi l’altro, Jo chiese: «Cosa sta succedendo?»

«Vuoi proprio saperlo?» ribatté Stoner.

«Sì!»

«Non fare domande.»

Per un attimo, Jo parve sul punto d’adirarsi. Poi, invece, rise, scosse la testa, sollevò il bicchiere ghiacciato. «Okay» disse. «Vada, se preferite così. Però ditemi almeno a cosa stiamo brindando.»

«Alla rivoluzione!» urlò Markov.

«La rivoluzione copernicana» disse Stoner.

«La rivoluzione del novecentocinque» ribatté Markov.

«Insomma, o l’una o l’altra.»

Continuarono a bere.

«Quello che ci vorrebbe» disse Markov, sbattendo giù il bicchiere vuoto «è un’orchestra. Dovrebbe suonare il primo movimento del concerto numero uno di Chaikovskij.»

«Non è abbastanza rivoluzionario» obiettò Stoner. «Che ne dite di Stars and Stripes Forever

«Controrivoluzionario!»

«Non è vero!»

«Cosa ve ne sembra di Me and Bobby McGee?» propose Jo.

I due uomini la fissarono senza capire.

«Janis Joplin» spiegò lei. «Era una cantante rivoluzionaria degli… Oh, lasciamo perdere!»

Stoner si protese sul tavolo. Gli altri due si chinarono verso di lui. «Dev’esserci il modo» disse Stoner, piano «di convincere Big Mac ad accettare la missione di rendez-vous. Dobbiamo trovare il modo.»

«I veri rivoluzionari non si lasciano scoraggiare dalla caparbia resistenza degli elementi reazionari» disse Markov, in un inglese impeccabile. Poi ruttò.

«Dobbiamo trovare il modo» ripeté Stoner.

«O inventarcelo» disse Jo.

«Forse» rifletté Markov «quando l’alieno avrà il laser puntato addosso, si sentirà spinto a reagire.»

«Sei ancora convinto che l’alieno sia maschio, eh?» disse Jo.

«Diciamo che è un “esso”» intervenne Stoner. «Cosa volevi dire con quell’“inventarcelo”?»

«Eh?»

«Ho detto che dobbiamo trovare un modo per fregare Big Mac, e tu hai detto “o inventarcelo”. Cosa avevi in mente?»

Jo strizzò gli occhi. «Niente. Era solo per… parlare.»

Ma il cervello di Stoner stava ribollendo sotto i fumi dell’alcol. «Supponiamo… Kirill, ascoltami… Supponiamo che uno dei radiotelescopi cominci a ricevere una risposta. Niente di preciso… Solo qualche clic e rumori vari…»

Markov lo fissò con occhi appannati. «Stai proponendo di creare noi questa risposta?»

Stoner agitò lentamente una mano. «Diciamo che… amplificheremo leggermente il segnale di ritorno. Poco poco, tanto così.»

«Molto pericoloso» disse Markov, scuotendo la testa. «Molto poco scientifico.»

«Sì. Immagino di sì.»

«Ma funzionerebbe?» continuò il russo. «Potresti fregare quel pallone gonfiato?»

«Se avessimo qualcuno al radiotelescopio capace di fare l’imbroglio per bene» disse Stoner.

«E» aggiunse Markov, alzando un dito «se sapessimo come fargli tenere la bocca chiusa.»

Un sorriso apparve, lento, sul viso di Jo. «Che ne dite del dottor Thompson? Credo di poterlo prendere dal lato buono.»

Maria Markova, seduta sul letto, tamburellava con le dita sulla valigetta. Kirill, lo sapeva, sarebbe rimasto fuori per ore. Basta che ci sia un bar aperto o una bella ragazza da conquistare, e lui avrà sempre da fare.

Quindi, lei aveva a disposizione buona parte della notte per interrogare Cavendish. Doveva trovare il modo di sfruttare l’inglese per fermare gli americani, per impedire a Stoner di veder realizzato il suo progetto di rendez-vous.

“Stoner” pensò. “È lui al centro di tutto. Se riesco a toglierlo di mezzo, avrò compiuto la mia missione.”

A labbra serrate, aprì la valigetta. L’apparecchio era alimentato da una sorgente a radioisotopi, e la lampadina rossa che ne indicava il perfetto funzionamento era accesa.

Maria mosse l’interruttore del trasmettitore, facendogli emettere un segnale più forte, più doloroso. Ma il viso che lei visualizzò stravolto dall’agonia non era quello di Cavendish: era quello di suo marito.