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«Stanotte c’è parecchio lavoro» disse l’infermiera. «Certe sere si passano nella noia più mortale. Ma stanotte c’è lavoro.»

«E non è nemmeno il ventisette» disse il dottore.

Cavendish lasciò ricadere la testa sul cuscino e strinse i denti per impedirsi di urlare di dolore. Il dottore se ne andò, ma l’infermiera si fermò davanti alla tenda che circondava il letto di Cavendish.

Un frastuono terrificante e urla eccitate si alzarono all’improvviso da oltre la tenda.

«Cristo santo, tenetelo fermo!»

«Datemi una mano!»

«Inserviente! Infermiera! Venite, presto…»

E, sopra tutto, l’urlo stridulo di… di cosa? Cavendish non capiva se fosse un uomo o una donna. O un animale.

L’infermiera scomparve. Cavendish udì rumore di lotta. Corpi che cadevano, si abbattevano sul pavimento, contro le pareti. Un paio di inservienti nerboruti passarono di corsa. Poi, lo stesso dottore che si era occupato di lui.

«Tenetelo fermo, tenetelo fermo!»

Con tutti i muscoli del corpo tesi nello sforzo, Cavendish si mise a sedere lentamente, dolorosamente. Non gli avevano tolto i vestiti, solo le scarpe. Alzarsi lo fece quasi svenire. Chinarsi a raccogliere le scarpe fu un’agonia tremenda.

E il caos in corridoio non accennava a interrompersi.

Cavendish raggiunse l’estremità della tenda e guardò, cauto, in corridoio. Un groviglio di corpi si agitava per terra davanti all’ingresso principale dell’ospedale. Inservienti e infermiere lottavano per tenere fermo un solo uomo, giovane e biondo, che combatteva con una ferocia rabbiosa, demenziale.

Un dottore, armato di siringa, stava tentando di piantare le ginocchia sul petto del giovane. Un altro, il medico che aveva curato Cavendish, cercava di infilare un ago in una di quelle gambe che si dibattevano.

“Buon Dio” pensò Cavendish, sconvolto dalla rivelazione, dev’essere “Schmidt”! Difficile, però, esserne sicuro: il viso del giovane si era trasformato nel muso di una belva.

Per diversi momenti, quasi dimentico del proprio dolore, Cavendish restò lì a guardare la scena, stupefatto. Poi infilò il corridoio e s’avviò verso l’uscita posteriore. Teneva le scarpe in mano, come un marito che, rientrando tardi, cerchi di sottrarsi all’ira della moglie.

Quando uscirono dal Circolo Ufficiali, Jo era sottobraccio a Stoner. Markov era al lato opposto del terzetto, sotto le luci al neon dell’insegna del locale. Migliaia di insetti ronzavano e svolazzavano attorno alle luci, nel loro tentativo istintivo, irrazionale, di comprenderne il mistero.

Le luci si spensero all’improvviso.

«Non avevo idea che fosse così tardi» disse Stoner. «Il Circolo ha già chiuso.»

«È mezzanotte» disse Jo. «Chiudono a mezzanotte.»

Stoner si riempì i polmoni dell’aria di mare. Fredda com’era, parve allontanare un po’ la nebbia che aveva in testa.

«Allora, compagni di rivoluzione» si sentì dire Stoner «secondo voi quante possibilità abbiamo?»

«Possiamo farcela» rispose subito Jo.

Markov tardò a rispondere. «Mi occorrerà qualche giorno per creare segnali abbastanza enigmatici.»

«Ma quante probabilità di successo abbiamo?»

Il russo si tirò la barba. «Praticamente zero» ammise. Poi, con uno di quei suoi sorrisi da ragazzo: «Però la differenza tra zero e “praticamente” zero è il margine di tutte le rivoluzioni vittoriose.»

«Siamo tutti matti, sapete» disse Stoner.

«Non matti. Ubriachi, questo sì. Ma non matti.»

«Possiamo farcela» ripeté Jo, stringendo più forte il braccio di Stoner. «Big Mac non è troppo furbo; cadrà nella trappola. Probabilmente gli verrà un infarto, ma abboccherà.»

«Questo è un vantaggio collaterale a cui non avevo pensato» disse acidamente Stoner.

«Domattina ne parlerò subito col dottor Thompson» disse Jo.

«Thompson» fece eco Stoner.

La ragazza annuì. «È l’uomo chiave dell’intero piano. Dobbiamo convincerlo ad aiutarci.»

«Non lo farà» disse Stoner.

«Credo di poterlo convincere» ribatté Jo.

Stoner la fissò per un lungo momento, poi scese i tre gradini che portavano sul marciapiede in corallo e cemento.

«Lascia perdere» disse.

«Cosa?»

Girandosi a guardare gli altri due, Stoner disse: «Scordiamoci di tutta quanta l’idea. Io non ho intenzione di portarla avanti.»

Markov era stupefatto. «Ma l’idea è partita da te!»

«Lo so. Però non è buona. Scordiamocela.»

Jo gli arrivò a fianco. «Keith, se ti preoccupi per Jeff e me…»

«Non mi preoccupo di niente» sbottò lui. «Però non intendo falsificare dati. È un piano che solo un ubriaco poteva concepire.»

E, di colpo, girò la schiena e partì verso l’AUS. Jo, ferma ai piedi della scala, lo guardò scomparire nella strada buia.

Markov la raggiunse. «Non ho mai creduto che sarebbe andato fino in fondo» disse dolcemente. «Erano solo chiacchiere per vincere la delusione per l’intransigenza di McDermott.»

Ma Jo disse: «No. Non è questo il vero motivo. E il vero motivo non ce lo vuole dire. Non vuole nemmeno ammetterlo con se stesso.»

Markov le appoggiò una mano sulla spalla. «Cara bambina, so come ti senti.»

«E come puoi saperlo?»

«Lo so cosa significa avere il cuore spezzato.»

Jo scosse la testa. «E io credevo che il mio fosse a prova di bomba.»

«Nessun cuore lo è» disse Markov. «Il meglio che si possa sperare è un buon cemento a presa rapida per rimettere assieme i pezzi.»

Con un sorriso triste, Jo ribatté: «Cemento a presa rapida? E io che ti credevo un romantico.»

Markov le circondò le spalle col braccio. Assieme, s’incamminarono lungo la strada. «Ti accompagno all’hotel.»

Jo si lasciò guidare dal russo. Si girò una sola volta a guardare nella direzione che Stoner aveva preso.

Nel buio della camera da letto, la luce rossa della valigetta fissava Maria come l’occhio imperturbabile d’un demone.

“È vecchio” si disse. “Non posso continuare a erogare il massimo d’energia per troppo tempo, se no gli viene un colpo e muore.”

Stava per abbassare l’intensità del segnale quando, sotto la finestra, udì un rumore smorzato. Guardando fuori, vide Cavendish che saliva le scale e arrivava alla porta, come uno zombie.

Maria guardò l’orologio. Il quadrante luminoso era sfocato, le lancette quasi invisibili. Con uno sbuffo d’impazienza, portò al minimo l’emettitore di segnali. “Mi sta peggiorando la vista” pensò alzandosi. “Dovrò usare lenti più forti.”

Lisciandosi il vestito, andò in soggiorno e aprì a Cavendish. L’inglese restò immobile, come un cane o una mucca, in attesa del permesso d’entrare.

Maria non accese le luci. Non voleva vedere il volto di Cavendish. L’uomo raggiunse una poltrona, crollò a sedere con un sospiro straziante.

«Le scarpe» vide Maria alla luce fioca della strada. «Perché ha in mano le scarpe?»

«Ero in infermeria» rispose lui.

«Perché?»

Lentamente, Cavendish cominciò a raccontarle ciò che gli era successo; le confessò che si era presentato all’ospedale nel tentativo di sfuggire alla giusta punizione.

«Come ha fatto a fuggire?» chiese Maria.

Lui le raccontò il caos provocato da Schmidt.

«Lo sanno tutti che si riempiva di droga» disse Cavendish, in quella sua voce da automa «ma adesso dev’essersi preso un’overdose di qualcosa di molto forte. Era impazzito. Una furia scatenata.»

Una furia scatenata. La frase colpì la mente di Maria. Una furia scatenata. Esistono droghe capaci di trasformare un normalissimo astronomo in una macchina da guerra senza cervello.

Sorrise nel buio. “Adesso so come fermare Stoner” pensò. “E non ci sarà nemmeno bisogno di fare del male a Cavendish”. Per chissà quale motivo, a quell’idea si sentì meglio.