«Questa tua ossessione. Il bisogno di allontanarti da tutto, da tutti…»
Lui la circondò con le braccia. «Non voglio allontanarmi da te, Jo. Te lo giuro.»
Lei si lasciò stringere, si appoggiò al suo corpo forte, saldo. Tutta la rabbia, tutti i dubbi, tutti i timori scomparvero come foglie morte trascinate via da un torrente.
Stoner le alzò il mento, la baciò sulle labbra. Lei chiuse gli occhi, gli si strinse contro.
Le loro labbra si staccarono. «Sei così bella, Jo. Bella in un modo impossibile…»
Quando la ragazza aprì gli occhi per guardare Stoner, vide il cielo. «Keith… Cos’è?»
Lui alzò lo sguardo, s’irrigidì un attimo. La lasciò andare e girò su se stesso, rovesciò la testa all’indietro. A bocca spalancata, fissò il cielo, distese le braccia per non perdere l’equilibrio, continuò a roteare, scrutando il cielo che scintillava.
«Cos’è, Keith?» ripeté Jo, fissando la cortina di luci che solcava il cielo da orizzonte a orizzonte.
Lui rise. «Cos’è? Guarda! È la nostra rivoluzione! È lo scherzo cosmico più gigantesco! Guarda! Ma guarda!»
Il cielo era vivido di colori, rossi cangianti e verdi e gialli pallidi, cortine di luce che sfilavano lassù in alto come per magia, facendo impallidire le stelle, lanciando riflessi nelle acque calme della laguna.
Jo si trovò senza fiato. Era meraviglioso, spaventoso, assolutamente bello.
«L’aurora boreale! Le luci del nord!» Stoner rideva, ballava sulla sabbia come un ragazzino, s’imbeveva di quello spettacolo meraviglioso. «O forse le luci del sud. Chi se ne frega? Se le vediamo qui, così vicino all’equatore, si vedranno da per tutto. Su tutto il pianeta! Certo. Guardale! Non sono stupende?»
Lei lo raggiunse di corsa. «L’aurora boreale? Ma perché…?»
Circondandola con un braccio: «È il nostro visitatore, Jo. Non capisci? Ha interferito con la magnetosfera di Giove, e adesso sta facendo la stessa cosa col campo magnetico terrestre. È la sua risposta, il suo segnale per noi! “Magnifico!”»
31
Il pianeta ruota. La linea di divisione tra notte e giorno si sposta lungo mari e continenti. È quando l’oscurità scende sull’uomo.
Nei grandi viali e negli stretti vicoli di Pechino, milioni di cittadini stupefatti scrutano il cielo, guardano i draghi di fuoco che danzano in alto. All’unisono, corrono verso la Città Proibita, si affollano nell’antica piazza in cerca di una risposta, di una spiegazione, delle parole dei loro capi che sappiano scacciare i draghi e allentare la paura che stringe i loro cuori.
A Teheran, i muezzin salgono sulle balconate dei loro minareti a proclamare la gloria di Allah, l’Onnisciente, il Benevolo. Gli uomini abbassano il viso nella preghiera, lanciando occhiate impaurite al cielo infiammato di luci. Le donne si stringono assieme e piangono. Sanno che la fine del mondo è molto vicina.
A Varsavia e a Cape Town, a Dublino e a Dakar, a Buenos Aires e in Nuova Scozia, il cielo risplende e la gente non capisce e urla e implora dei o scienziati per una parola di salvezza, per una speranza, per qualcosa che allontani la paura che ghiaccia il sangue.
E le luci in cielo danzano, ovunque, nella notte del pianeta Terra.
Nulla è tanto meraviglioso da non poter essere vero.
Dal suo arrivo a Kwajalein, Stoner aveva lavorato a una scrivania all’ultimo piano di uno degli edifici più vecchi dell’isola. L’intero piano era un unico ufficio aperto.
Diciassette tra uomini e donne, visto che il loro lavoro non era ritenuto tanto importante da meritare uffici singoli, si dividevano il piano, affettuosamente soprannominato “la palude”. Le scrivanie si affollavano l’una addosso all’altra, come nelle redazioni di certi vecchi giornali. E anche il frastuono era quello di una redazione. Per quanto tutti cercassero di non prendersi a gomitate, i telefoni squillavano, i terminali di computer ticchettavano, le voci rimbalzavano sul soffitto basso e sulle pareti di cemento.
E quando il sole batteva sul tetto di lamiera, nemmeno tutti i condizionatori d’aria dell’isola messi assieme avrebbero potuto rendere sopportabile la palude.
La pioggia tamburellava sul tetto, e Stoner, seduto alla scrivania, guardava il discorso del presidente degli Stati Uniti sullo schermo che normalmente serviva per il computer. Una burrasca tropicale ululava fuori delle finestre, ma lì, nella palude, nessuno le prestava attenzione.
In un silenzio mortale, tutte le persone seguivano il discorso del presidente. Con cautela, soppesando le parole, il presidente informò la popolazione sulla nave spaziale, spiegando pazientemente che non rappresentava una minaccia per la razza umana. Assolutamente nessuna minaccia.
Continuava a ripeterlo. È una grande occasione, la rivelazione improvvisa e inaspettata che non siamo soli nell’universo. Non è una minaccia.
Però, il presidente appariva spaventato. E molto, molto stanco.
Stoner ascoltò, guardò, aspettò. Ogni nervo, ogni muscolo del suo corpo si tese, ebbe uno spasmo: avrebbe letteralmente voluto “strappare” all’immagine televisiva del presidente le parole che attendeva di sentire.
E poi, le parole arrivarono: «Stamattina ho dato l’ordine di dare il via a una missione spaziale congiunta tra americani e russi. La missione avrà il compito di raggiungere l’astronave aliena e studiarla da vicino. Andremo incontro al visitatore alieno.»
Stoner lasciò andare il fiato. Gli tremavano le ginocchia. Allora lo faremo, si disse, ancora troppo teso per sorridere o parlare. Lo faremo. Io lo farò.
Quasi non udì il presidente che annunciava: «Di conseguenza, ho deciso di dedicare ogni mio sforzo personale al raggiungimento della collaborazione e comprensione internazionali indispensabili per garantirci di entrare effettivamente in contatto con la nave aliena e di ottenere tutti i possibili vantaggi da questo contatto. Dato che ciò costituirà un’enorme responsabilità per me personalmente, e per i miei assistenti e consiglieri, ho deciso, pur con riluttanza, di non ripresentarmi come candidato alla presidenza.»
Nella stanza caldissima, qualcuno gemette. Stoner quasi non se ne accorse.
«Non accetterò la designazione del mio partito per la rielezione e non presterò la mia opera alla campagna di alcun candidato. Tutte le mie energie debbono essere riversate, e lo saranno, nel coordinare lo sforzo internazionale per scoprire ogni informazione possibile sul visitatore alieno.»
Qualche grido di giubilo si alzò dagli altri che guardavano la televisione.
«Forse adesso ci daranno da mangiare in modo decente» commentò uno degli uomini.
«O mi aggiusteranno la finestra» disse una donna, guardando l’acqua che dal davanzale gocciolava giù per la parete.
La tensione si allentò. Persino Stoner, quando si rimise al lavoro, sorrideva. In quel momento, stava studiando le analisi spettrografiche della nave in avvicinamento.
La pioggia cessò di colpo com’era iniziata. Il pomeriggio si rischiarò, e la palude raggiunse la solita temperatura soffocante. Tutti cominciarono a lasciare la scrivania, a trovare scuse per andare al centro computer, o ai radiotelescopi, o in qualsiasi altro posto più fresco e meno afoso.
«Io ho saltato il pranzo» disse uno dei tecnici, superando la scrivania di Stoner. «Ho diritto a uscire un po’ prima.»
Stoner non gli prestò troppa attenzione. Il tecnico uscì in compagnia di due amici. Comunque, in pratica era andato a giustificarsi da Stoner, quasi adesso lo ritenesse il capo, quello che decide.
Mentre i tre scomparivano sulla scala di metallo, entrò Jo Camerata. Si guardò attorno un attimo, poi raggiunse la scrivania di Stoner e sedette sull’orlo, a gambe incrociate.