Erano già bagnati fradici dalla prima volta che la canoa si era capovolta. Markov remava furiosamente, percuotendo l’acqua con colpi frenetici e irregolari. Jo, seduta a prua, cercava di non ridere.
«Attento» disse «stiamo infilando un altro canale tra le isole…»
Prima che lei avesse finito la frase, la canoa fu afferrata dalla corrente e cominciò a inclinarsi. Markov, disperato, vide il buttafuori rovesciarsi sopra le loro teste, e tutti e due finirono di nuovo nell’acqua tiepida.
L’acqua gli arrivava alla vita. Il russo cominciò a frugarsi nelle tasche. Perdere qualcosa lì significava perderlo per sempre. Poi gli venne in mente l’orologio. Gocciolava e il vetro era appannato, ma la lancetta dei secondi camminava.
«Forza, aiutami a raddrizzarla» disse Jo.
Con un sospiro teatrale, Markov afferrò il buttafuori e rovesciò la canoa su se stessa. Era piena d’acqua. Ridendo di cuore, Jo gli fece segno di inclinarla quel tanto da far uscire l’acqua.
«Credevo» disse Markov, grugnendo per lo sforzo «che queste imbarcazioni non potessero rovesciarsi. Se no a cosa serve il buttafuori?»
Jo continuò a ridere. Il russo l’aiutò a risalire sulla canoa, senza perdere l’occasione di palparle il sedere. Un sedere notevole: sodo, ma morbido.
Jo gli tese una mano. «Dai, torna su.»
Markov valutò la distanza che li separava dalla spiaggia più vicina. «No, grazie. Io cammino. È più sicuro.»
«Cammini?»
«Insomma, sguazzo nell’acqua. Ti spingerò a un porto tranquillo.»
«Credevo che avessi paura degli squali.»
Lui scrutò l’acqua limpidissima. «Se arrivasse uno squalo, sono sicuro che correrei talmente forte da lasciarmelo indietro.»
Si portò dietro la canoa e cominciò a spingerla. L’imbarcazione gli sembrava un giocattolo troppo grosso.
Jo si aggrappò alle frisate e gli regalò un’occhiata radiosa. «Mio eroe! Proprio come Humphrey Bogart nella Regina d’Africa.»
«Chi?» chiese Markov, avanzando nell’acqua alta fino alle cosce.
«Non sai chi è Humphrey Bogart?» ribatté lei, incredula.
«Non era il vicepresidente degli Stati Uniti?»
Quando raggiunsero la spiaggia, il cielo si oscurò, scese un altro acquazzone. Jo balzò a terra e lo aiutò a mettere in salvo la canoa sulla sabbia. Poi corsero sotto gli alberi e crollarono a terra: bagnati, divertiti, senza fiato.
«Non credo di essere fatto per la vita all’aperto» commentò Markov.
«E perché?»
«Sono un uomo civile. Il che significa che il mio habitat è in città, non la natura selvaggia.»
«Mosca?»
Lui annuì. «Sì. In questo momento, Mosca mi apparirebbe meravigliosa. Ovviamente, se anche tu fossi lì con me, mia dolcissima.»
«Com’è Mosca?» chiese Jo. «Non ci sono mai stata.»
«È una città.» Markov scrollò le spalle. «Non bella come Parigi, non grande come New York. Non affollata come Tokyo. Il sole la illumina per ben due minuti ogni anno. Tutti corrono fuori a osservare il fenomeno. Poi tornano le nubi, e nevica per il resto dell’anno.»
Lei rise. «Tu ami la tua città, vero?»
Markov aveva gli occhi fissi sulla pioggia che batteva la laguna. «Suppongo di sì. Ci sono nato. Immagino che ci morirò. Mio padre è morto a cinquanta chilometri a ovest di Mosca, nel quarantadue, per respingere i nazisti. Suo padre era morto nella guerra civile seguita alla rivoluzione.»
Jo si chinò su di lui, gli sfiorò la guancia con la mano. «Però tu vivrai una vita lunga e pacifica, eh?»
Markov arrossì. «Ho tutte le intenzioni di farlo» disse, cercando di ricomporsi.
Aspettarono che il temporale lasciasse l’isola, spostandosi a ovest. Il sole uscì da dietro le nubi, caldo e abbagliante. Nel giro di pochi minuti, la spiaggia era asciutta.
Markov scrutò a occhi socchiusi il cielo. «Se stendessimo i vestiti sulla sabbia, asciugherebbero prima.»
«E noi potremmo fare un altro bagno a fior di pelle» scherzò Jo.
«Per un pomeriggio, penso di essere stato in acqua abbastanza» disse Markov.
Jo rifletté qualche momento. «Forse è meglio che ci lasciamo asciugare dal sole, senza spogliarci.»
«Una grande prova di coraggio» annuì Markov.
Jo gli sorrise. «Spero solo che riusciamo a tornare a Kwaj prima del buio.»
A Washington era mezzanotte.
Nonostante la tensione, Willie Wilson sorrise, si appoggiò all’indietro sul divano. L’appartamento dell’hotel era ben arredato. La direzione gli aveva dato il migliore: piano più alto, prezzi più alti.
«Lei non è dell’assicurazione?» chiese Willie, incrociando le braccia dietro lo schienale.
Il giovane seduto sulla poltrona davanti a lui sorrise. «No, signore, no. Sono del Dipartimento di Giustizia.»
«Giustizia?» Willie lanciò un’occhiata a suo fratello, in piedi davanti al mobile bar, irrequieto, quasi spaventato.
«Sì, signore» disse il giovanotto. Portava un abito grigio di taglio classico e cravatta marrone rossiccio. “Ha l’aria di un avvocato” pensò Willie.
«Perché vuole proprio me?» chiese Willie.
«Vogliamo impedire che succeda una tragedia.»
«Vogliamo? Perché il plurale?»
«Il Dipartimento. Il segretario alla giustizia. La Casa Bianca.»
Willie fischiò piano. «Hai detto niente.»
Il giovanotto annuì.
«E quale sarebbe la tragedia che la preoccupa?» chiese Willie.
«Il panico che lei ha diffuso.»
«Panico? Non so nulla di panico. Io sono un semplice ministro che diffonde la Parola del Signore.»
«Signore, lei sta spaventando la gente. Ciò che è accaduto allo stadio RFK poteva concludersi in una tragedia terribile. È stata evitata solo per un soffio.»
«Perché “lui” ha saputo reagire in fretta!» scattò Bobby, puntando l’indice sul fratello.
«È stata opera del Signore, non mia» ribatté Willie, continuando a sorridere.
«Reverendo Wilson, lei spaventa la gente. Già le cose andavano abbastanza male quando si limitava a predicare di scrutare il cielo. Ma adesso… Con quelle luci in cielo ogni sera…»
«È il messaggio che aspettavamo» disse Willie.
«La gente ha paura! Credono che sia vicina la fine del mondo.»
«Questo non l’ho mai detto.»
«Però la gente è convinta che lo stia dicendo» ribatté il giovanotto. «In tutto il paese.»
«Io sono un semplice ministro del Signore…»
«Lei è diventato una figura nazionale di primo piano, reverendo Wilson. E deve dimostrare una maggiore responsabilità per il potere che ha acquisito.»
«Come sarebbe a dire, responsabilità?» chiese Bobby.
«Deve calmarsi.»
«Cosa?»
«Deve smetterla di spaventare la gente. Deve dire che le luci in cielo non c’entrano niente con Dio o con la fine del mondo.»
«Non posso» ribatté, secco, Willie.
«Dovrà farlo.»
«Se no?» chiese Willie.
Il giovanotto si girò a guardare Bobby. «Se no, il governo federale diventerà molto duro con lei.»
Il sorriso di Willie non si era smorzato. «Mi sono visto col presidente, lo sapete?»
«Sì, signore, lo so. È stato lui a mandarmi qui, reverendo. Mi ha chiesto di rammentarle la tremenda responsabilità che ha tra le mani.»
«Il presidente?»
«Esatto, signore. Ha scelto me, ma poteva scegliere anche qualcun altro.»
Il sorriso di Willie divenne un po’ più teso, un po’ più forzato.
«In altre parole» grugnì Bobby «o stiamo al suo gioco, oppure il governo ci esclude dalla televisione e fa controllare la nostra contabilità da un centinaio di revisori.»
«Cosa significa che dobbiamo stare al gioco?»
«Dov’è il suo prossimo raduno, reverendo Wilson?»
«Ad Anaheim.»
Il giovanotto annuì. «Sì. Ci siamo già messi in contatto con la direzione dello stadio.»
«Che diritto avete…?»
«È molto semplice, reverendo. Un’esplosione di panico a uno dei suoi raduni potrebbe uccidere centinaia di persone. Forse migliaia. Nessuno di noi vuole che questo accada. Giusto?»
Willie annuì lentamente.
Il giovanotto trasse un profondo respiro. «Quindi, ai suoi seguaci deve dire che le luci in cielo sono perfettamente naturali, che a provocarle è l’astronave che si sta avvicinando al nostro pianeta, e che dietro non c’è nessun significato soprannaturale. Deve dissociare le luci in cielo dalla voce di Dio.»
«Ma non è possibile» disse Willie.
«Sì, certo che è possibile. Deve dirlo.»
Willie guardò suo fratello, poi tornò a posare lo sguardo sull’uomo del Dipartimento di Giustizia. «Lei sta interferendo con l’opera di Dio.»
«Lei lavora per Dio, signore. Io lavoro per il segretario alla Giustizia.» Esitò, poi aggiunse: «E tutti noi lavoriamo per il fisco.»