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«Cosa significa che dobbiamo stare al gioco?»

«Dov’è il suo prossimo raduno, reverendo Wilson?»

«Ad Anaheim.»

Il giovanotto annuì. «Sì. Ci siamo già messi in contatto con la direzione dello stadio.»

«Che diritto avete…?»

«È molto semplice, reverendo. Un’esplosione di panico a uno dei suoi raduni potrebbe uccidere centinaia di persone. Forse migliaia. Nessuno di noi vuole che questo accada. Giusto?»

Willie annuì lentamente.

Il giovanotto trasse un profondo respiro. «Quindi, ai suoi seguaci deve dire che le luci in cielo sono perfettamente naturali, che a provocarle è l’astronave che si sta avvicinando al nostro pianeta, e che dietro non c’è nessun significato soprannaturale. Deve dissociare le luci in cielo dalla voce di Dio.»

«Ma non è possibile» disse Willie.

«Sì, certo che è possibile. Deve dirlo.»

Willie guardò suo fratello, poi tornò a posare lo sguardo sull’uomo del Dipartimento di Giustizia. «Lei sta interferendo con l’opera di Dio.»

«Lei lavora per Dio, signore. Io lavoro per il segretario alla Giustizia.» Esitò, poi aggiunse: «E tutti noi lavoriamo per il fisco.»

Era già il tramonto prima che Stoner uscisse dall’ufficio. Si fermò all’entrata, scrutò per un attimo, tra le fronde delle palme, il cielo in fiamme. Poi s’incamminò verso lo spaccio.

Un’ora dopo, vestito a nuovo, si trasferì dall’AUS all’hotel, solo per scoprire che Jo non c’era. Imperterrito, passò dal centro computer al Circolo Ufficiali, ma non trovò Jo.

“Dove diavolo può essere?” si chiese. L’orologio dietro il banco del Circolo segnava le sette passate. Gli aveva detto che andava a nuotare; se le fosse successo qualcosa, la voce si sarebbe sparsa per tutta l’isola.

Superò i clienti fissi al banco e andò a sedere allo stesso separé che aveva diviso con Markov. Era depresso.

Non può essersene dimenticata. Ha semplicemente deciso di non venire. Una rabbia fredda lo invase. Probabilmente sarà con McDermott.

Per quanto Cavendish camminasse, per quanto decidesse di allontanarsi, di prendere altre direzioni, i piedi lo riportavano sempre all’ospedale.

Adesso era il tramonto. Appoggiato al tronco di una palma davanti ai campi da tennis prospicienti l’ospedale, vide man mano le finestre illuminarsi.

“Non ho più una mia volontà” gemette fra sé, nel profondo. “Mi controllano, mi costringono a camminare e a parlare come un burattino vivente.”

Si afflosciò sull’albero. Al momento, il dolore non era tremendo, ma nulla poteva farlo scomparire. Solo l’obbedienza ai loro ordini alleggeriva l’agonia.

«Sono proprio in gamba» mormorò sottovoce. «Se dedicassero gli stessi sforzi che dedicano al controllo del cervello al risanamento della loro agricoltura, non avrebbero più bisogno del KGB.»

Il dolore non era tanto forte. “Forse posso mangiare qualcosa. O dormire!” Reclinò la testa e chiuse gli occhi. Sonno. Che lusso incredibile.

Cavendish non vide Schmidt aprire la finestra, sporgersi sul davanzale e saltare a terra, due piani più in basso. Il giovane astronomo era perfettamente vestito. I suoi occhi avevano uno scintillio folle, e nel taschino della camicia c’erano solo due delle capsule che Cavendish gli aveva dato poche ore prima.

Markov si sentiva un po’ come il marinaio che torna da un naufragio. Era distrutto dallo sforzo, coperto di sale e sabbia, bruciato dal sole in viso, fino alla fronte.

Aveva tutti i muscoli indolenziti. Aveva spinto quella maledetta canoa per ore, mentre Jo, seduta a prua, gli sorrideva. Non fosse stato per l’aurora boreale e per le luci degli edifici di Kwajalein, senza dubbio sarebbero finiti al largo nelle tenebre, per poi morire sull’oceano.

Risalì gli scalini del suo piccolo bungalow, traversò il portico in cemento ed entrò. Non erano ancora le nove, ma Markov aveva l’impressione che fossero le quattro del mattino. “Maria sarà sorpresa di vedermi rientrare così presto” pensò.

Sua moglie non era in soggiorno. Lui scrollò le spalle, e si accorse di colpo di essersi scottato anche collo e spalle.

Quando aprì la porta della camera da letto, il suo unico desiderio era buttarsi sul letto.

Maria lo fissò stupefatta, incredula. La valigetta che aveva accanto era piena di strane apparecchiature elettroniche. Su uno schermo minuscolo apparivano sottili linee luminose, simili a quelle di un elettrocardiogramma.

Ma fu l’espressione sul viso di lei a colpire Markov: senso di colpa, rabbia, paura. La bocca della donna era aperta, ma non ne uscivano parole. Gli occhi di lei lo fissavano, e lui riuscì a scrutarle sino in fondo all’anima. Sembrava Lucifero nel momento in cui aveva capito che Dio gli aveva spalancato sotto gli abissi dell’inferno.

«Cosa stai facendo?» ruggì Markov. «Cos’è?»

Dimenticato il dolore, avanzò su sua moglie. Lei si alzò dal letto, indietreggiò, il viso segnato da confusione e vergogna.

Markov passò lo sguardo da sua moglie alla valigetta. Afferrò la valigetta, l’alzò sopra la testa.

«No!» urlò Maria, balzandogli addosso.

Markov scaraventò la valigetta contro la parete. All’impatto col cemento, si fracassò in due.

«Non sai cosa stai facendo!» strillò Maria, e tentò di graffiarlo.

Lui la ributtò sul letto, corse all’apparecchio elettronico. Una luce rossa era ancora accesa. Con furia gelida, Markov abbassò il piede, ruppe il vetro, incrinò la plastica. Colpì e colpì, finché della valigetta restarono solo schegge di vetro e frammenti di circuiti stampati.

Maria era stravolta. «Hai… Hai distrutto un’importantissima proprietà dello stato.»

«Zitta, donna» ruggì lui «e ringrazia il cielo se non ti riservo lo stesso trattamento. Non so a cosa servisse quell’apparecchio, ma certo a niente di buono, questo è evidente.»

Maria fissò i resti della valigetta e scoppiò in singhiozzi. «Ci uccideranno tutte due, Kirill. Ci uccideranno tutt’e due.»

«Che ci uccidano!» urlò Markov, «Forse è meglio morire.»

33

Rifiutò come inutile ogni tentativo di calcolare in base a princìpi teorici la frequenza con cui le forme di vita intelligente si presentano nell’universo. La nostra ignoranza dei processi chimici grazie ai quali la vita è nata sulla Terra rende privi di significato questi calcoli. In base ai meccanismi della chimica, la vita potrebbe essere abbondante nell’universo, o potrebbe essere rara, o potrebbe non esistere affatto al di fuori del nostro pianeta. Ciononostante, abbiamo buone ragioni scientifiche per portare avanti la ricerca di prove d’intelligenza con una certa speranza di risultati positivi… Le società di cui con maggiori probabilità potremo osservare le attività sono quelle che si sono spinte, sia per motivi positivi o negativi, ai massimi risultati permessi dalle leggi della fisica.

Arriviamo così al mio punto principale. In un arco di tempo sufficiente, esistono pochi limiti a ciò che può fare una società tecnologica. Prendiamo in primo luogo la questione della colonizzazione…

Freeman Dyson
Disturbing the Universe, 1979

Stoner sedeva solo nel separé d’angolo, i piedi sul sedile che aveva di fronte. Sul tavolo, in un secchiello di plastica, una bottiglia di champagne vuota a metà.

“Che serata favolosa” si disse. “C’è da divertirsi da matti, vecchio mio.”

La folla del dopocena stava riempiendo il locale. Qualcuno aveva fatto partire sullo stereo della disco music assordante; per farsi sentire, bisognava urlare. Ogni tanto qualcuno si avvicinava al tavolo di Stoner, ma lui allontanava tutti senza eccezioni.

“Forse dovrei andare all’alloggio di McDermott, a vedere se lei è davvero lì. E se c’è? Cosa faccio? La trascino via per i capelli?”