«Ma tu…?»
L’adrenalina stava rifluendo. Tutti i muscoli del corpo di Stoner cominciavano a urlare.
«Riportami alla mia stanza» mormorò, barcollando verso la porta. «Voglio solo coricarmi.»
Ma sulla porta c’erano quattro uomini della polizia militare. Stoner crollò tra le loro braccia.
Cavendish si svegliò lentamente. Socchiuse gli occhi, lottò per allontanare dalla mente le nebbie del sonno. Rabbrividì di freddo. Per lunghi momenti, non riuscì a ricordare perché fosse seduto contro il tronco di una palma, vicino ai campi da tennis davanti all’ospedale.
Gradualmente, i ricordi tornarono. Ricordò Schmidt e le parole folli, false, che gli aveva sussurrato all’orecchio. Lo travolse un senso di vergogna. “Mi controllano. Mi hanno rubato l’anima.”
Scrutò i campi da tennis. Era buio, non c’era nessuno. Appoggiandosi all’albero, si alzò.
Un formicolio enorme gli torturava le gambe, ma il cervello gli si era schiarito. “Il dolore è scomparso!” Le mani gli corsero al viso, ai capelli, come animate da una volontà propria, come cercando di scoprire al tatto se non fosse solo un’illusione, se il dolore non fosse ancora lì in agguato, in attesa di tornare con forza ancor più terrificante.
«È scomparso» sussurrò Cavendish alle ombre della sera. «Scomparso, completamente… Come se qualcuno avesse premuto un interruttore.»
Un interruttore. «Già» si disse. «Un interruttore che possono premere di nuovo a loro piacere, quando decideranno di volere qualcos’altro da me.»
Allontanò dalla testa le mani tremanti. Dentro, però, era perfettamente calmo. La sua mente gli apparteneva di nuovo, se non altro per un po’ di tempo.
E, con una chiarezza che si ha solo quando tutti i pensieri inutili sono scomparsi, Cavendish finalmente capì cosa doveva fare.
E, con la chiarezza assoluta di visione che gli era stata improvvisamente concessa, Cavendish intuì come porre fine alla propria schiavitù.
«So cosa vuole» mormorò a denti stretti «ma non può costringermi a farlo. Io sono un uomo, non uno dei suoi cani condizionati.»
Con decisione estrema, girò la schiena all’ospedale, superò gli alberi, gli edifici, traversò la strada, raggiunse gli edifici sul lato opposto. L’oceano era vicino. Gli occorsero solo pochi minuti per traversare l’isola e arrivare alla spiaggia.
Le onde sciabordavano nel buio. Il mare si stendeva sotto un cielo luminosissimo. Dietro le poche nubi, l’aurora boreale splendeva beffarda.
“So cosa siete, qual è la vostra origine” disse Cavendish, senza parlare, alle luci che danzavano. “Per me è sufficiente. Non potrò incontrarvi direttamente, ma va bene lo stesso. È già molto, per una vita.”
L’oceano gli lambiva i piedi, vivo, pulsante.
Cavendish sorrise alle acque scure. «Sofocle ha sentito questo stesso suono tanto tempo fa» disse. «E gli ha fatto venire alla mente la marea torbida, la risacca della miseria umana.»
C’erano correnti molto forti in quell’oceano spietato, correnti capaci di allontanare un uomo dalla terraferma, correnti che ospitavano i carnivori più efficienti del pianeta.
Cavendish restò in riva all’acqua solo per un momento. Nella sua mente non sfilarono i ricordi del passato. Pensò solo al futuro, un futuro cupo e doloroso di schiavitù a padroni ignoti, inconoscibili.
Con un sorriso che era più una smorfia, sussurrò: «Ma finché ne ho la forza, posso mettere fine a tutto questo.»
Perché, chissà dove, aveva letto che l’unica persona che rende possibile la schiavitù è lo schiavo.
Entrò in acqua, nel caldo liquido amniotico che avrebbe cancellato per sempre il suo dolore. Camminò senza esitare, e il mare gli arrivò alle ginocchia, alla vita, alle spalle. Non pensò alle creature fameliche che lo attendevano, non pensò alle luci in cielo che riempivano la sera di uno scintillio innaturale. E la corrente lo afferrò, e poco dopo Cavendish era scomparso.
34
Nonostante il casco a isolamento acustico, il rombo del motore dell’elicottero stava facendo venire l’emicrania al pilota. Sotto di lui c’era solo l’oceano grigio, vuoto. Al suo fianco, un uomo scrutava il mare con un binocolo.
«E come cazzo pensano che possiamo trovare uno in quest’acqua fottuta senza nemmeno un segnale luminoso?» urlò il pilota sopra il ruggito cacofonico del motore.
L’uomo al suo fianco abbassò il binocolo, si sfregò gli occhi arrossati. «Ordini» gridò.
«Vadano a farsi fottere! Quello stronzo è uscito a nuotare di sera ed è affogato. Ormai se lo sono mangiato gli squali.»
«Lo so» urlò l’altro «e lo sai anche tu, e lo sa persino il comandante. Ma i regolamenti dicono che dobbiamo cercarlo.»
«In culo ai regolamenti. Si perde tempo e basta.»
Ma quando giunse il momento del suo rapporto radio, la voce furibonda del pilota assunse un tono calmo, professionale, conciliante. «J cinque zero quattro al controllo di Kwajalein. Posizione sei nove alfa. Niente da segnalare.»
Spense la radio e riattaccò: «Ci tocca restare qui per altre tre fottute ore! Stronzo d’un inglese.»
Stoner sedeva su una scomodissima sedia di legno nell’ufficio di Tuttle. Ogni parte del suo corpo era un dolore lancinante. La testa gli ronzava per le ore di interrogatorio. E il frastuono del condizionatore d’aria alla finestra gli stava facendo venire l’emicrania.
Di fronte a Stoner erano seduti due ufficiali, mentre Tuttle se ne stava dietro la scrivania. Gli altri due erano del servizio di sicurezza dell’isola: un giovane sottotenente nero, e un uomo dal viso rubizzo che sembrava troppo anziano per essere soltanto tenente.
«Ma perché l’ha attaccata?» chiese per la centesima volta il sottotenente.
Stoner fece per scuotere la testa, ma ebbe un sobbalzo di dolore. «Ve l’ho già detto» rispose. «Non lo so.»
«Ha detto che è colpa sua» intervenne l’ufficiale più anziano. «A cosa alludeva?»
Si riparte da capo, pensò Stoner, e diede le stesse risposte che aveva già dato dozzine di volte: non lo so, non lo so, non lo so.
Però rivide, con gli occhi della mente, il viso folle di Schmidt, risentì la sua forza inumana, rivisse la furia cieca del suo attacco. E capì: non può essere stato un incidente, un caso. Voleva me. Voleva uccidermi.
«Dove può essersi procurato la droga?» chiese il tenente.
L’ufficiale nero rispose: «Adesso sappiamo cos’era. PCP. Polvere degli angeli. Ne ha presa tanta da mandare in orbita un reggimento.»
«Dove può essersela procurata?» chiese Tuttle, preoccupatissimo.
Stoner rise. «Non dirà sul serio, eh? Quest’isola è il paradiso dei drogati. A fare un giro di sera, c’è tanta erba nell’aria che ci si mette a volare.»
«La polvere degli angeli è una cosa molto più seria della marijuana» ribatté seccamente il tenente.
«Ma qui c’è un traffico enorme di pastiglie» disse Stoner. «Lo saprete, no?»
«Ma non di polvere degli angeli» disse il sottotenente.
Stoner scrollò le spalle, si azzittì.
«Che motivo poteva avere Schmidt per attaccarla?» chiese Tuttle.
«Nessuno, che io sappia.»
«Non ha mai avuto discussioni?»
«Praticamente non ci siamo mai parlati» disse Stoner.
Le domande continuarono a piovere, e Stoner continuò a dichiararsi all’oscuro di tutto; ma cominciò a capire. “Schmidt mi è saltato addosso per una ragione precisa, non solo perché era pieno di droga. Voleva ‘me’. Voleva togliermi di mezzo. Perché? Perché qualcuno gli ha raccontato che è il modo più rapido per mettere fine al progetto e far rimandare tutti a casa.”
Tuttle chiamò un marinaio, fece portare dei panini. L’interrogatorio proseguì mentre mangiavano.