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Lui scosse la testa. «Non lo so. Forse i russi.»

«I russi? E la marina lo…?»

«Io non ho detto una parola, e non voglio che la dica nemmeno tu.» Stoner si protese sulla scrivania, fissandola. «Se cominciamo a seminare dubbi, possiamo dire addio alla missione di rendez-vous.»

«Ma se qualcuno ha tentato di ucciderti…» La voce di Jo si spense.

Stoner scrollò le spalle. «Credo che volessero soltanto mettermi fuori uso, per impedirmi di andare in Russia e partire, Evidentemente qualcuno non vuole che sia un americano a effettuare la missione di rendez-vous.»

«I russi» sussurrò lei.

«Non gli scienziati russi» ribatté Stoner, «E probabilmente nemmeno il governo russo.» Credo si tratti solo di un elemento di opposizione all’interno del loro governo. Gli oltranzisti. Il KGB, probabilmente.

Jo ricadde a sedere, distrutta. «Allora sei in pericolo.»

«Forse. Kirill sta controllando.»

«Devi dirlo alla marina!» insistette lei. «Tuttle e gli altri devono saperlo, per poterti proteggere.»

«No» rispose lui, secco. «Se cominciano a fare indagini, la missione di rendez-vous salta.»

«Sempre meglio che farti uccidere.»

«Jo, ti ho già detto che si tratta della mia vita. Non scherzavo. Lasciami vivere a modo mio.»

«Per farti uccidere.»

«Correrò il rischio.»

«Keith…» “Ma cosa posso dire?” si chiese Jo, “Tra noi due c’è questa scrivania: il suo lavoro, la sua ossessione. Per lui, è tutto più importante della sua stessa vita. Più importante di me.”

«D’altronde» stava dicendo Stoner, cercando di non dare peso alla cosa «forse è stata solo opera di Cavendish. Non credo che il fatto che lui sia scomparso ieri sera sia una coincidenza.»

Jo annuì lentamente, pensosa «Corrono un sacco di voci sul dottor Cavendish, infatti.»

Anche Stoner annuì. «Sì, lo immagino.»

«Era veramente un agente dei russi?»

«Nel New England mi ha raccontato di essere un agente doppio. Adesso, però, non sono più sicuro che sapesse per chi lavorava.»

«Era malato. Stava male.»

«Forse. E forse fingeva.»

«Non credi che qualcuno degli altri scienziati sia una spia?» chiese Jo.

Stoner aggrottò la fronte, «Non lo so. Non ci ho mai pensato. Qualcuno potrebbe farlo, immagino.»

«Il professor McDermott lo farebbe» disse lei, apposta.

Stoner uscì in una risata cupa. «Big Mac? Bella spia che sarebbe. Ha sempre la bocca aperta.»

«È più subdolo di quanto tu non creda» disse Jo.

Lui le scoccò un’occhiata ambigua. «Già. Ci scommetterei.»

«Non sta molto bene. Da quando è apparsa l’aurora boreale, è a pezzi.»

«Ho sentito. È più di una settimana che non lo vedo.»

«Nemmeno io» ribatté lei, caustica.

Stoner esitò, poi disse: «Bene.»

Per lunghi momenti, nessuno dei due parlò, Jo aspettò che Stoner dicesse qualcosa, che si alzasse, la cercasse, la toccasse, facesse un gesto capace di dimostrare il suo affetto. Invece, restò seduto, incerto, irrequieto.

«Ho saputo» disse alla fine lei, per spezzare il silenzio «che ti hanno incaricato di scegliere il personale che verrà in Russia con te.»

«È vero.»

«Voglio venire anch’io. Ho già controllato. Puoi portarmi come analista di computer. Mi accetteranno.»

Stoner tamburellò per un secondo sul piano della scrivania. «Jo… Se questo viaggio fosse pericoloso per me, potrebbero correre rischi anche tutti gli americani che mi accompagnano.»

La ragazza alzò la testa. «Credi di essere l’unico capace di fare l’eroe?»

Lui ebbe quasi un sorriso. «Io non sono un eroe, Jo. Sono un pazzo. Questo lo so.»

Lei non poté impedirsi di restituirgli il sorriso, «Keith, ti ho detto tanto tempo fa che siamo fatti della stessa stoffa. Io voglio partire quanto lo vuoi tu.»

«Davvero?»

«Me l’hai detto tu. Una cosa del genere farà un figurone sul mio curriculum vitae.»

«Bene» disse lui. Era quasi un sospiro. «Okay. Ti metterò in lista. Sarà meglio che tu vada a farti fare la visita all’ospedale.»

Jo si alzò. «Grazie, Keith.»

«Sei matta, credimi.»

«Sì, lo so. Come te.»

Anche Stoner si alzò, ma senza fare il giro della scrivania. Jo raggiunse la porta e uscì, mentre lui, in piedi, la guardava andarsene.

«Gesù Cristo, ma guarda!»

Il giornalista televisivo fissò con una smorfia il pilota dell’elicottero. «Cerca di non bestemmiare» disse, ma la sua voce si perse nel rombo dei motori.

«Andiamo in trasmissione tra dodici minuti» urlò in risposta il pilota, continuando a fissare la folla colossale che assediava lo stadio di Anaheim. A perdita d’occhio, sulle autostrade che da un lato arrivavano a Los Angeles e dall’altro a Disneyland, masse compatte di automobili avanzavano, parafango contro parafango.

«E dove la trovano tutta questa benzina?» si chiese il pilota.

Il giornalista alzò gli occhiali sulla fronte, si grattò il naso. «Senti» disse al pilota «ti spiace cercare di tenere la bocca chiusa? Una parola sbagliata in diretta, e “tutti quelli” vorranno farci la festa.» Indicò le automobili in basso.

Il pilota scosse la testa. «Non ho mai visto una folla del genere. Dove li metteranno tutti?»

Per il reporter fu solo un sussurro negli auricolari. Si girò sul sedile, con le cinture di sicurezza che gli mordevano la pelle, e cercò nel cielo al tramonto l’elicottero che aveva a bordo la telecamera. Stava sorvolando la Orange Freeway, riprendeva quel traffico incredibile per il notiziario delle undici.

Il giornalista accese la radio, sulla frequenza di comunicazione con l’altro elicottero.

«Harry, sono Jack. Mi senti?»

«Sì, Jack.»

«La telecamera è a posto?»

«Tutto in perfetto ordine.»

«Ottimo. Allora, ricordati che a metà del discorso di Wilson spegneranno le luci, per far vedere a tutti l’aurora boreale. È questa la ripresa che voglio. Lo stadio illuminato dalle luci in cielo.»

«Lo so. L’avrai.»

«Sicuro?»

«Ho un apparecchio per la ripresa a raggi infrarossi. Non preoccuparti. Sarà stupendo.»

«Me lo auguro» disse il giornalista.

Lo stadio pulsava letteralmente di una folla immensa: un gigantesco animale sovrannaturale che viveva e mormorava nel tramonto incipiente. Fila dopo fila, la folla riempì tutti i sedili, si ammassò sulle scale impedendo il passaggio ai venditori di gelati e bibite, si accalcò sulle rampe dietro i sedili e sul campo che circondava la piattaforma destinata all’oratore.

A un’estremità dell’enorme ovale, il grandissimo cartellone che serviva per le partite di baseball proclamava a lettere fluorescenti: CASA DEGLI ANGELI. Una A gigantesca circondata da un’aureola luminosa brillava nel cielo sempre più buio.

Fuori dello stadio, migliaia di persone si affollavano nei parcheggi. Televisori portatili si accendevano su ogni auto. Le famiglie facevano picnic tra i fumi dell’anidride carbonica.

Le tenebre s’infittirono, e la serata ebbe inizio. La folla multiforme urlò e rise e cantò, sollecitata da predicatori, cantanti, gruppi rock e politici che si succedettero sulla piattaforma di legno al centro del campo.

Un ex astronauta, noto per essersi dedicato da anni allo studio delle esperienze extrasensoriali e paranormali, si avvicinò al microfono e proclamò: «Questo ambasciatore alieno ci offre la nostra unica possibilità di unirci alla fratellanza delle galassie.»

La folla, stupita, sospirò.

Un predicatore, rosso in viso, esortò: «Questo messaggio del Signore è un avvertimento a correggere le nostre vie, a chiedere perdono per i nostri peccati e a offrire i nostri cuori a Gesù Cristo, nostro Dio e nostro Salvatore.»