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Markov decise di essere conciliante.

«Mia cara signorina, in quelle carte che ha davanti c’è tutta la storia della mia vita. Non è stata una vita troppo affascinante, lo ammetto, ma se vuole che le racconti qualcosa di particolare…»

La ragazza guardò il formulario su cui era appoggiata la sua sinistra. Nella destra stringeva una matita mordicchiata.

«È sposato?» gli chiese.

“Ha intenzione di farmi tutte le fottute domande” gemette Markov fra sé. “Ci metteremo ore.”

«Sì. Mia moglie è Maria…»

«Non ancora» disse il tenente, tracciando diligentemente una crocetta nel riquadro appropriato. «Figli?»

«Nessuno.»

«Il nome di sua moglie?»

«Maria.»

«Il cognome da ragazza?»

«Kirtchatovska.»

Il tenente non si lasciò impressionare. Evidentemente, non sapeva che il maggiore Markova era in grado di rendere molto spiacevole l’esistenza a un tenente.

«Da quanto tempo è sposato?»

«Da tutta la vita.»

Lei alzò gli occhi di scatto. «Come?»

Markov le sorrise. “Ha davvero un viso grazioso” pensò. “Chissà cosa farebbe se mi protendessi sul tavolo e assaggiassi quel suo labbro inferiore tanto sensuale.”

«Ventiquattro anni a gennaio» le disse.

Lei abbassò lo sguardo, scrisse la cifra. Poi lo fissò negli occhi. «Ventiquattro anni, e non ha figli?»

«Io soffro di una triste malattia» mentì allegramente Markov. «È la conseguenza di un trauma di guerra, dicono gli psicologi.»

«È… impotente?» La ragazza sussurrò l’ultima parola.

Markov scrollò le spalle. «È un Catto esclusivamente psicologico. A volte, se trovo una donna bella e appassionata, divento una tigre. Ma con la maggioranza delle donne… Niente.»

«E sua moglie come…?»

La porta della stanza venne spalancata da un uomo robusto, in uniforme da capitano. «Non ha ancora completato il formulario? Il colonnello sta aspettando!»

Markov si alzò, per avere il vantaggio dell’altezza sul giovane capitano, e propose: «Se siete sicuri che non sono una spia o un assassino, potrei parlare col colonnello e magari poi tornare qui per finire di rispondere alle domande.»

Anche il tenente si alzò. «O forse io potrei completare il formulario dopo le ore di lavoro.»

Cauto, Markov disse: «Non vorrei recarle disturbo.»

«Lavoro spesso fino a tardi» disse lei. «E queste sono solo domande di routine. Non c’è niente di segreto. Potremmo proseguire a casa sua, se per lei è più comodo, professore.»

Il capitano abbaiò: «Noi non conduciamo controlli di sicurezza a casa della gente!»

Con una scrollata di spalle, Markov tornò alla sedia. «Benissimo, allora. Immagino che dovremo finire qui e lasciar aspettare il colonnello.»

«No» decise il capitano. «Vedrà subito il colonnello, poi tornerà qui a finire. Anche se ci vorrà molto tempo.»

«Come vuole» disse docilmente Markov. Ma strizzò l’occhio al tenente.

La ragazza restò seria. «L’aspetterò in questa stanza, anche se dovesse essere tardissimo.»

A Markov fu difficile soffocare un sorriso, mentre seguiva il capitano in un corridoio spoglio. Le pareti erano prive di decorazioni e, per quanto dipinti da poco, tutti i corridoi avevano un aspetto cupo, quasi decadente. Uomini e donne, in genere in uniforme, si muovevano in fretta. Markov non riuscì a individuare nessuna telecamera, ma ebbe l’impressione che tutti fossero continuamente tenuti sotto controllo.

Il capitano lo guidò fino a un’anticamera, dove una donna di mezza età, pallida e in abiti civili, dominava una grande scrivania con una macchina per scrivere elettrica e due telefoni. La donna lanciò a Markov un’occhiata di disapprovazione, il tipo di occhiata che gli rivolgeva spesso sua moglie, che automaticamente lo costringeva ad alzare le mani per aggiustarsi i capelli e la barba. Poi annuì all’indirizzo del capitano e, senza una parola, indicò la porta dietro la scrivania.

Il capitano, facendo cenno a Markov di seguirlo, raggiunse la porta, bussò una sola volta e, con cautela, l’aprì.

“Qui nessuno parla?” si chiese Markov. “Cos’è, una chiesa?”

Il capitano non oltrepassò la soglia, ma indicò bruscamente a Markov di entrare.

Markov si trovò in un ufficio sontuoso. Un’enorme scrivania di legno nero lucido, e dietro bandiere incrociate. Un tappeto orientale sul pavimento. Finestre che guardavano sulla Piazza Rossa. Comode poltrone in pelle perfettamente allineate a una parete. Un samovar tirato a lucido su un armadietto basso.

L’ufficio era vuoto. Ma, prima che Markov potesse girarsi verso il capitano, si aprì la porta all’estremità opposta della stanza ed entrò sua moglie.

«Maria! È il tuo ufficio?»

Maria era in uniforme, e sembrava ancora più tozza e pesante del solito. Gli scoccò un’occhiataccia.

«Il mio ufficio? Ah! Il mio ufficio è più piccolo della scrivania del colonnello.»

«Oh.»

«Muoviti, muoviti. Ti stanno aspettando tutti.»

Markov superò il tappeto ed entrò nella stanza adiacente. Era una sala riunioni, e l’atmosfera era satura del fumo delle sigarette e delle pipe dei venti uomini e donne seduti attorno a un tavolo lungo e stretto. Markov starnutì.

A capo del tavolo c’era il colonnello, un ometto grasso e tozzo con occhi piccoli, suini. Maria presentò tutti a Markov. Lui dimenticò immediatamente tutti i nomi, tranne quello dell’accademico Bulacheff, presidente dell’Accademia Sovietica delle Scienze e astronomo di grande fama.

Leggermente a disagio, Markov sedette dove gli indicò Maria, tra un uomo magro e calvo che fumava nervosamente una sigaretta lunga e sottile e una segretaria che teneva in grembo un blocco per appunti. Markov notò che la gonna le arrivava sopra le ginocchia, ma le sue gambe non valevano nulla.

«Allora» disse il colonnello, con un cenno del capo che fece tremolare le sue pieghe di grasso «possiamo iniziare.»

Markov restò in silenzio ad ascoltare la storia che gli altri esposero. Il pianeta Giove stava emettendo strani impulsi radio che si sovrapponevano alle onde radio normali. Poteva trattarsi di un segnale di chissà quale tipo? Di un codice? Di un linguaggio?

Uno dei militari seduto vicino al colonnello scosse la testa. «Penso che si tratti di un’astronave americana che si trova su un’orbita molto profonda.»

«Impossibile» disse l’uomo accanto a Markov.

«Una sonda segreta in viaggio verso Giove» insistette l’ufficiale.

«E a quale scopo?»

L’ufficiale scrollò le spalle. «Non appartengo al servizio segreto. Lo scoprano loro.»

«Non abbiamo nessun indizio che gli americani abbiano effettuato questo lancio» disse una donna dai capelli grigi, seduta a metà tavolo di distanza da Markov. «E dubito che gli americani potrebbero nasconderci un lancio del genere.»

«E la Germania Occidentale? Non ha una base di lancio in Brasile?»

«È sotto sorveglianza continua» rispose la donna. «E non è in grado di far partire missioni interplanetarie.»

«Allora devono essere gli americani» disse l’ufficiale.

“Oppure i gioviani” pensò Markov.

«Non è un’astronave» disse l’accademico Bulacheff, con voce calma, dolce. «Gli impulsi radio provengono dal pianeta. Di questo siamo certi.»

«Gli americani hanno individuato i segnali?» chiese il colonnello. Evidentemente, la parola di Bulacheff bastava per mettere a tacere la teoria dell’astronave.

«Abbiamo studiato col computer le pubblicazioni scientifiche americane» rispose un giovane in abiti civili. «Nessuno ha scritto qualcosa sul fatto.»

«Forse non hanno ricevuto i segnali.»

«Assurdo! Le loro apparecchiature sono buone quanto le nostre. Migliori, in qualche caso.»

«Ma hanno un radiotelescopio sintonizzato sulla frequenza giusta? Dopo tutto…»