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Poi i suoi occhi si posarono sull’assurda noce di cocco, e sorrise piano.

«Tu» disse al frutto scuro, rotondo «farai un viaggio molto molto lungo.»

«Lo so.»

Stupefatto, alzò la testa e vide Jo ferma sulla soglia. Il suo sorriso si trasformò in una smorfia d’imbarazzo. «Uh… Comincio a parlare alle noci di cocco. Un segno di nervosismo, immagino.»

«A me non sembri troppo nervoso.» Jo entrò in ufficio. Indossava i soliti calzoncini e una camicetta sbottonata a metà. La sua pelle aveva un colorito olivastro. Un sorriso enigmatico nasceva agli angoli della sua bocca.

«Un autocontrollo d’acciaio» mormorò Stoner.

«Hai già fatto le valigie?»

«Ho quasi finito. E tu? Non salirai sull’aereo vestita a quel modo, per caso?»

«Ma no» rispose lei. «Pensavo solo di fare un’ultima passeggiata sulla spiaggia prima di cena, ho tutto il tempo per cambiarmi e prendere l’aereo.»

Lui annuì. «Be’, di certo non rimpiangerò la cucina di qui.»

Lei gli afferrò il braccio. «Vieni a fare due passi con me. Diamo l’addio all’isola assieme.»

Sottobraccio, a piedi nudi, passeggiarono sulla spiaggia lambita dalle onde, sulla sabbia calda. Il sole rosso del tramonto proiettava ombre lunghissime.

Oltre la laguna, oltre le isolette che la delimitavano, il sole stava affondando nell’oceano, e il mondo intero era soffuso d’oro. Uccelli volavano nel cielo solcato di nubi, lanciando richiami all’infinito.

«Il nostro ultimo tramonto a Kwajalein» disse Jo, stringendo il braccio di Stoner con tutt’e due le mani.

«Non siamo riusciti a goderci troppo tutta questa bellezza, eh?»

«C’è un sacco di cose che non siamo riusciti a fare» rispose lei. «Ci siamo persi molto della vita.»

«Lo so.»

«Quando tutto questo sarà finito, Keith, quando le nostre esistenze diventeranno un po’ più normali…»

«Succederà mai?»

«Deve succedere» disse Jo. «Non credi?»

«Non lo so. L’alieno cambia tante cose… Chi può dire cosa accadrà?»

Lei si girò di colpo, lo abbracciò, gli appoggiò la guancia sulla spalla. «Keith, ti prego, non farlo. Questa missione mi spaventa.»

Stoner assaporò il profumo dei suoi capelli. «Spaventa te? Non volevi fare l’astronauta?»

«Se partissi io, non avrei paura» ribatté la ragazza. «Ma ho un terrore folle per te.»

Lui rise, ma il suo corpo s’irrigidì. «Reynaud è convinto che i russi vogliano uccidermi.»

«Vedi?» Jo si scostò un poco, lo fissò negli occhi. «Non sono l’unica.»

«Ne ho parlato con Kirill. È un’idiozia.»

«L’ha detto esplicitamente?»

«Più o meno.»

«Più o meno cosa? Si è messo a ridere o l’ha presa sul serio?»

Stoner agitò una mano. «Una via di mezzo.»

«Keith, tu “sei” in pericolo.»

«Sarò ospite del governo russo. Lo saremo tutti. Non oseranno tentare qualcosa.»

«Sei testardo» disse lei. «E stupido.»

«Kirill mi proteggerà.»

Jo alzò le mani al cielo. «Bella guardia del corpo. Non è nemmeno capace di guidare una canoa!»

Stoner rise.

«Non farlo, Keith. Ti prego. Lascia che i russi lancino i loro cosmonauti verso la nave aliena. Resta a terra con noi.»

«No.»

«Keith, ho paura per te! Sono terrorizzata!»

«Lo so» disse lui «ma non ha importanza. Io sono un figlio di puttana senza cuore, okay? Però per me questa cosa è più importante di tutto il resto. È la mia vita. Non lo capisci? È più importante dei miei figli, di te, di qualsiasi altra cosa o persona. Devo farlo. “Ho bisogno” di farlo. Camminerei sul fuoco, se fosse necessario.»

Jo non rispose. Abbassò la testa, fissò la sabbia.

«Sbaglio a pensarla così? Sono un mostro?»

«Sì» rispose lei, dolcemente. «Lo sai che ti stai mettendo in pericolo. Però rifiuti ogni emozione umana, ogni bisogno umano. L’unica cosa che vuoi è fare questo volo, anche se sai che ti uccideranno.»

«Cosa posso dire? Sono davvero un mostro, dopo tutto.»

«Non un mostro, Keith» ribatté Jo, «Una macchina. Una macchina che si programma da sé. Ho visto come hai picchiato Schmidt. Lui era un animale, ma tu eri una macchina. Una macchina inumana, instancabile, senza emozioni. Niente ti può fermare. Tu superi ogni ostacolo, tutto quello che ti sbarra il cammino. Mac, Schmidt, l’intera marina… Persino i tuoi figli. Non c’è nessuno tra noi che possa fermarti.»

«È questo che pensi di me?» La voce di Stoner era un sussurro strangolato. Dentro, lui avvertiva una sensazione di gelo, di vuoto.

«È quello che sei, Keith» disse Jo, lottando per allontanare il tremito dalla propria voce.

Per un lungo momento, lui non parlò. Poi «Okay, Sarà meglio tornare. Devo ancora preparare qualcosa.»

«Sì. Anch’io.»

Rifecero lo stesso percorso in silenzio, e Stoner la lasciò all’entrata dell’hotel. Jo lo guardò allontanarsi, irrigidito dall’orgoglio o dalla rabbia o dal dolore, e capì che anche lui aveva emozioni, che era vulnerabile.

“Però di me non gli importa” capì anche. “Non c’è modo di portarlo a preoccuparsi di me.”

Corse dentro, salì alla sua stanza, chiuse la porta con un colpo secco.

38

Possono esservi ben pochi dubbi sul fatto che, col tempo, entreremo in contatto con razze più intelligenti della nostra. Questo contatto potrebbe essere a senso unico, con la scoperta di rovine o altri manufatti; potrebbe essere reciproco, per il tramite di circuiti radio o laser, o potrebbe anche avvenire faccia a faccia. Comunque, si verificherà, e potrebbe essere l’evento più disastroso della storia umana. L’asserzione avventata che Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza è come una bomba a orologeria posta sotto le fondamenta di tante fedi…

Arthur C. Clarke
Voices from the Sky — 1965

Il jet Ilyushin era rumorosissimo e scomodo, anche se solo due dozzine di passeggeri erano presenti nel suo interno cavernoso.

Stoner, che si trovava a prua, guardava dal finestrino la distesa infinita della steppa: solo e sempre erba, a perdita d’occhio. Non un albero, non una città, nemmeno un villaggio. “Probabilmente le pianure americane avevano questo aspetto prima che i contadini le fecondassero di grano e frumento” pensò.

A una quota tanto alta, il volo dell’aereo era abbastanza regolare. Se solo i seggiolini non fossero stati così attaccati l’uno all’altro, gemette fra sé Stoner. L’unico momento difficile del volo si era verificato quando erano passati sopra il Tetto del Mondo, tanto vicini all’Everest da vederne la cima ammantata di neve; poi avevano sorvolato il Tibet e le selvagge montagne Altaj. Stoner immaginò di poter vedere, in lontananza, l’Afghanistan, dove le popolazioni indigene combattevano ancora per l’indipendenza, come avevano combattuto contro l’esercito di Alessandro il Grande.

Sulla fila vicina di sedili, il professor Zworkin russava sonoramente. Gli altri erano disseminati nella lunga cabina. Jo aveva scelto un posto in fondo all’aereo.

Lo stomaco di Stoner brontolava. Il servizio ristorante praticamente non esisteva. Avevano avuto qualcosa da mangiare quando il jet era atterrato a Vladivostock, e poi qualche altra cosa molte ore dopo, quando si erano fermati a fare rifornimento nei pressi di Tashkent. Tutt’e due le volte, a nessuno dei passeggeri era stato permesso di scendere.

Avevano sorvolato la zona selvaggia e collinosa del Kazakhistan, dove gli indigeni, vestiti di pelliccia, seguivano le mandrie di pecore e capre cavalcando ponies sgraziati. E ora la distesa d’erba, la steppa esterna, mentre si avvicinava la città di Baikanur, preludio alla base missilistica di Tyuratam.