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Tyuratam.

Sembrava il paesaggio di Manhattan, con l’unica differenza che lì non c’erano grattacieli, ma torri di lancio. Strutture d’acciaio per ospitare e far partire missili. Per chilometri e chilometri! Una dopo l’altra, un’intera città fatta di torri di lancio. Al confronto, Cape Canaveral sembrava una modesta periferia, di dimensioni minime e poco solida. Quel posto, invece, era destinato a durare per l’eternità. Come Pittsburgh, come Gary, come le distese interminabili di fabbriche nei maggiori centri industriali. Tyuratam era un complesso massiccio, operoso di edifici giganteschi, grandi macchine, e persone instancabili.

Il loro mestiere era lanciare razzi. Il loro lavoro era l’astronautica. Sì, quello era un vero porto, come la favolosa Basra delle Notti d’Arabia, come Marsiglia o New York o Shanghai. Da quel porto, su lunghe lingue di fiamma, partivano navi dirette nello spazio, e tornando riportavano tesori di nuove conoscenze.

“E un giorno o l’altro” rifletté Stoner “riporteranno energia, e materie prime, e si comincerà a costruire fabbriche in orbita.”

Per adesso, però, sondavano i mari ignoti dello spazio per conoscere di più, per individuare le orbite più sicure per i satelliti che dovevano ritrasmettere le informazioni a terra.

L’aereo si abbassò. Stoner vide le luci che circondavano una piattaforma di lancio, dove un razzo argenteo era immobile nella morsa di una torre scintillante.

Una torre di lancio per Soyuz, comprese. “Io volerò su quel missile.”

Non notò, sul lato opposto del grande complesso di torri e razzi, due altri missili allineati fianco a fianco. Erano dipinti di verde, e avevano testate capaci di seminare molti megaton di morte.

39

O siamo soli nell’universo, o non lo siamo. Entrambe le prospettive sono sconvolgenti.

Lee Dubridge

Stoner era chino sul foglio di carta, incerto, la penna in mano. Fino a quel momento aveva scritto:

Mr. Douglas Stoner

28 Rainbow Way

Palo Alto, CA 94302

Caro figlio,

come stai? Se hai seguito i notiziari, saprai probabilmente che mi trovo in Russia, e che sto per intraprendere una missione spaziale per andare incontro alla nave aliena, ammesso che ciò sia possibile. I russi ci trattano molto bene. Ci hanno sistemati in una specie di caserma, no, anzi, sembra più un collegio. Ognuno ha una stanzetta, ma io non passo molto tempo nella mia.

Nelle ultime settimane, ho lavorato sodo con i cosmonauti russi e coi tecnici addetti al lancio. Avresti dovuto vederli quando hanno cercato d’infilarmi in una delle loro tute! Io sono più alto e magro dei loro cosmonauti, e hanno dovuto modificare la tuta molto in fretta. E ho sempre avuto addosso i loro medici. C’era da pensare che fossi io l’alieno, con tutti gli esami che mi hanno fatto!

Tutti sono stati molto gentili con noi, anche se non possiamo allontanarci dai dormitori e dai pochi altri edifici dove abbiamo lavorato. Ai russi non va che noi ficcanasiamo in giro. Immagino che anche noi saremmo altrettanto prudenti, se avessimo ospiti stranieri al centro spaziale di Cape Kennedy, in Florida.

Qui ci sono altri undici scienziati stranieri, oltre a

Rimise giù la penna. “Cosa importa?” si chiese. “A Doug non interessa.”

E cosa diavolo interessa a Doug? D’improvviso, capì di non conoscere suo figlio. Il ragazzo era per lui un perfetto sconosciuto. E sapeva ancora meno della figlia più giovane.

Con uno sbuffo di disgusto sbatté la penna sul tavolo di legno, si alzò, raggiunse la porta, percorse lentamente il corridoio. Tutte le altre porte erano chiuse. Non era ancora tardi; la cena era terminata meno di un’ora prima.

“Però domani è il grande giorno” si disse Stoner. Il conto alla rovescia. Il lancio.

Tutto sembrava innaturalmente calmo. In America, tutto era più vivace, più vivo. C’erano sempre riunioni, conferenze stampa, incontri anche a notte fonda, fotografi che abbagliavano coi lampi dei flash.

Ma non qui. Niente giornalisti. Nessun fotografo.

Scese nella stanza dove mangiavano tutti assieme, Uno dei fisici cinesi sedeva sulla poltrona di pelle in un angolo; alla luce di una lampada, leggeva un libro in russo. Stoner fece un cenno, e il cinese rispose con un sorriso. L’interprete era scomparso; non potevano chiacchierare.

Stoner studiò il tavolo rotondo al centro della stanza, fissò irrequieto gli scaffali quasi vuoti di libri, s’incamminò verso la porta della cucina, l’aprì.

Markov era chino sul frigorifero aperto, probabilmente in cerca di cibo.

«Hai preso due razioni di dessert» disse Stoner.

Markov alzò la testa. «E con ciò? Mi tieni sotto controllo? Be’, non posso farci niente. Quando sono nervoso, mangio. È per non far abbassare il tasso degli zuccheri nel sangue.»

«La baklava era ottima» ammise Stoner. «Se non altro, qui la cucina è di alta classe.»

«Ne vuoi un po’? Se ne è rimasto.»

«No.» Stoner scosse la testa. «Quando sono nervoso, io non riesco a mangiare.»

Markov lo fissò. «Nervoso, tu? Sembri così calmo, così rilassato.»

«Dentro sono tutto un tremito.»

Con un sospiro di delusione, Markov chiuse il frigorifero. «Il dolce è finito. Strano, avrei giurato che ne fosse rimasto un po’.»

Tornarono nell’altra stanza. Il fisico cinese era scomparso, ma uno dei russi si era accomodato in poltrona e aveva acceso la radio. Una melodia classica per pianoforte risuonava nella stanza.

«Chaikovskij?» chiese Stoner.

Markov gli scoccò un’occhiata di rimprovero. «È Beethoven. La Patetica.»

Stoner rifiutò di lasciarsi intimidire. «Anche Chaikovskij ha scritto una Patetica, no?»

«Una sinfonia. Che richiede per lo meno cento musicisti e un’ora di tempo. Keith, per essere un uomo colto…»

«Pensavo che una stazione rossa trasmettesse solo opere di compositori russi.»

Markov fece per ribattere, poi capì che l’americano lo stava prendendo in giro. Rise.

«Vediamo se riusciamo a trovare un po’ di caffè» disse Stoner.

«Ma stanotte non devi astenerti dall’uso di stimolanti?» chiese Markov. «Credevo che il medico…»

Stoner alzò un dito a zittirlo. «Quel tizio muscoloso seduto in un angolo fa parte della vostra équipe medica» disse, in tono affabile. Il russo non prestava la minima attenzione a loro due. «Alle undici mi infilerà in corpo un ago spesso come l’oleodotto dell’Alaska. Fino a quel momento, mangerò e berrò tutto quello che voglio.»

«In camera ho della vodka» disse Markov.

«No, sarebbe troppo. Domani il caffè non mi confonderà le idee. Invece la vodka potrebbe farlo.»

Tornarono in cucina, e Stoner mise il caffè sul fuoco. Le note di Beethoven filtravano dalla porta.

«Stavo pensando» disse Markov, sedendosi al tavolo «a un filosofo inglese, Haldane.»

«J. B. S. Haldane? Era un biologo, no?»

«Un genetista, credo. E un marxista. Negli anni Trenta era iscritto al partito comunista inglese.»

«E allora?»

«Una volta ha detto: “L’universo, non solo è più strano di quanto immaginiamo, è più strano di quanto ‘possiamo’ immaginare”.»

Stoner fece una smorfia, si girò verso la caffettiera, poi ancora verso Markov.

«Non capisci cosa significa?» chiese il russo. «Domani rischierai la vita per raggiungere l’astronave aliena. Ma se per ipotesi, quando la raggiungerai…»

«“Se” la raggiungeremo» si sentì mormorare Stoner; e ne restò sorpreso.

«Se e quando la raggiungerete, d’accordo… Ma se fosse qualcosa al di là della comprensione umana? Se tu non riuscissi a capirci niente?»