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Stoner tolse dal fornello il caffè, ne versò in due delle delicate tazzine di porcellana che erano le uniche disponibili in cucina. La Patetica di Beethoven giunse al secondo movimento.

«La senti?» chiese Stoner, gesticolando.

«La musica? Sì, naturalmente.»

«È stato un essere umano a crearla. Una mente umana. Altre menti umane l’hanno eseguita, registrata e trasmessa per farcela sentire. In questo momento, stiamo ascoltando i pensieri di un musicista tedesco morto da più di un secolo e mezzo.»

«E questo cosa c’entra con l’alieno?» chiese Markov.

«Una mente aliena ha costruito quella nave…»

«Una mente che forse non riusciremo a comprendere.»

«Però quella nave segue le stesse leggi di fisica che “comprendiamo”. Si sposta nello spazio esattamente come le navi che abbiamo costruito noi.»

«E scatena l’aurora boreale sull’intero pianeta» ribatté il russo.

«Servendosi di tecniche elettromagnetiche che non comprendiamo. Non ancora. Ma le comprenderemo. Possediamo la capacità di capire.»

«Mi chiedo se sia vero.»

Stoner appoggiò sul tavolo il bricco del caffè.

«Non ti è chiaro, Kirill? La possediamo. La possediamo! Perché credi che io voglia andare nello spazio? Per lasciarmi suggestionare da qualcosa d’incomprensibile? Per poter adorare gli alieni? No, porca miseria! Voglio vedere, apprendere, “comprendere”.»

«E se non ci riuscissi? Se fosse al di là della comprensione?»

Stoner scosse la testa, deciso.

«Non c’è nulla nell’universo che non possiamo comprendere. Basta avere il tempo per studiarlo.»

«Questa è una convinzione tua.»

«È la mia religione. La stessa religione di Einstein: “L’eterno mistero dell’universo è la sua comprensibilità”.»

Markov gli sorrise. «Gli americani sono ottimisti per natura.»

«Non per natura» lo corresse Stoner. «In virtù della realtà storica. Alla lunga, l’ottimismo vince sempre.»

«Benissimo, mio ottimista amico, spero che tu abbia ragione. Spero che l’alieno ci sia amico e voglia aiutarci. Non vorrei dovermi sottomettere a qualcuno che non è nemmeno umano.»

Tornarono nell’altra stanza, con le tazzine di caffè. Il medico russo seduto nell’angolo alzò gli occhi, indicò l’orologio e disse qualcosa a Markov.

«Vuole ricordarti che l’iniezione è per le undici.»

Stoner sorrise al medico. «Digli che apprezzo il suo sadico interessamento e che mi piacerebbe prendere quell’ago e infilarglielo nel culo.»

Markov tradusse in russo. Il medico annuì e sorrise.

Beethoven terminò, e la radio cominciò a trasmettere musica da camera: una melodia per archi dolce, piacevole, astratta, matematica.

«Bach, vero?» chiese Stoner, accomodandosi sulla poltrona vicino all’unico divano della stanza.

Markov sospirò. «Vivaldi.»

Si aprì la porta ed entrò Jo, che si stava grattando le braccia.

«Zanzare» disse. «Grosse come aeroplani.»

«Uno dei piaceri della campagna» commentò Markov.

Jo indossava jeans e un maglione leggero. Passandosi una mano tra i capelli, si lamentò: «Tutto l’edificio è circondato da quei maledetti riflettori. Il cielo non si vede, e non permettono di spingersi oltre la zona illuminata.»

«Ma pensa al lato positivo della cosa» le consigliò Markov. «I riflettori attirano le zanzare.»

Jo rise, raggiunse il divano. «Non credo che stanotte riuscirò a dormire. Sono troppo agitata.»

«Vuoi un po’ di caffè?» offrì Stoner.

«Sarebbe ancora peggio.»

«Una tazza di tè caldo, magari?» chiese Markov. «O un po’ di vodka?»

«Niente alcool. Devo avere le idee chiare per domani, anche se non mi lasceranno mettere le mani sulle loro apparecchiature.»

«Forse potremmo convincere il medico lì a fare a te l’iniezione che dovrebbe fare a Stoner. Garantisce un sonno profondo e rilassante, e il mattino dopo ci si sveglia con la testa chiara come un lago di montagna.»

«Così dicono» commentò Stoner.

«No, grazie» rispose Jo. Poi guardò il medico. «Capisce l’inglese?»

«No» disse Markov. «Solo il russo.»

«Di dov’è?»

Markov lo chiese al medico, che alla vista di Jo fece un sorriso enorme e rispose con una lunga serie di parole accorate.

«È di un piccolo villaggio nei pressi di Leningrado» tradusse Markov «il più bel villaggio dell’intera Russia. Sarebbe felicissimo di mostrarti com’è bello, specialmente in primavera.»

Jo restituì il sorriso. «Allora è un vero russo? Non è dell’Ucraina o della Georgia o del Kazakhistan?»

Markov soppesò il medico, che era grassoccio, rosso di capelli e di carnagione chiara. «È un russo autentico, te lo garantisco. Ma perché tanto interesse per le nostre nazioni confederate?»

Jo si girò verso Markov e Stoner. «Ho parlato con un po’ di gente di qui. Guardie, impiegati, persone normali.»

«Non astronomi o linguisti» mormorò Markov.

Jo lo ignorò. «Parecchi russi sono preoccupati per gli abitanti del Kazakhistan e per altri gruppi etnici non russi.»

«Preoccupati?» chiese Stoner.

«La marea islamica» disse Markov, in tono annoiato. «Dopo l’Iran e l’Afghanistan, l’argomento preferito di conversazione è la possibilità di una rivolta indigena. Che però è del tutto impossibile.»

«Una rivolta» disse Jo. «E un sabotaggio? Se gli stessi che si sono serviti di Schmidt si servissero domani di un tecnico del Kazakhistan per sabotare il missile?»

Markov scosse la testa, alzò le mani al soffitto. «No, no! Impossibile. Questa è una cosa che gli uomini della nostra sicurezza hanno controllato a fondo. Alle rampe di lancio si sono potuti avvicinare solo russi. Ve lo garantisco.»

«E io sono al sicuro da tutti i russi?» chiese Stoner.

Per un attimo, Markov non rispose. Poi, tirandosi la barba, disse con estrema serietà: «Sì. Ne sono certo.»

I due uomini restarono a fissarsi per un lungo momento di silenzio.

«Penso che mi andrebbe un po’ di quel tè» disse Jo, per interrompere il confronto muto.

«Subito.» Markov schizzò verso la cucina. «Ti preparerò una tazza di tè che ti calmerà i nervi e rinfrancherà il tuo spirito. Non come quell’orribile porcheria che chiamano caffè. Puà! Come si fa a bere roba del genere tutti i giorni?»

Stoner rise mentre Markov spariva in cucina. “Ci ha lasciati soli” capì; e andò a sedersi sul divano accanto a Jo.

«La mia ultima notte sulla Terra» disse. Poi aggiunse: «Per una settimana circa.»

«Non sei nervoso?»

«Maledettamente.»

«Non si vede. Sembri calmissimo.»

«All’esterno. Dentro, mi si agita tutto. Se mi facessero una radiografia, verrebbe confusa. A meno di non usare un tempo d’esposizione di un millesimo di secondo.»

Jo rise piano.

«Divento sempre nervoso prima di un lancio, specialmente negli ultimi minuti. Il mio battito cardiaco accelera.»

«È comprensibile» disse lei, e tornò seria. «Puoi ancora tirarti indietro, se vuoi. I russi hanno pronti altri cosmonauti che…»

«Lo so.»

«Non hai paura che cerchino di… di fermarti?»

«Kirill mi ha fatto la balia come un San Bernardo.»

«Ma non è sufficiente…»

«E anche tu» aggiunse lui. «Ti ho osservata, sai. Te ne vai in giro a controllare tutto e ti fai mangiare viva dalle zanzare.»

Lei parve sorpresa. «Non ho… Be’, noi due non bastiamo come guardie del corpo.»

Stoner tese una mano, le afferrò la nuca. «Te ne sono grato, Jo. Capisco quello che stai facendo e te ne sono grato, sul serio.»

«Ma certo.»

«Certo. Spero tu capisca perché mi sono così intestardito in questa faccenda.»