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«Cosa c’è?» le chiese, accendendo la sigaretta. «Perché ti sei alzata così presto?»

Lei scrollò le spalle, Inutile parlarne con Kirill. Si sarebbe solo arrabbiato e avrebbe detto idiozie, trascinato dalla foga.

Markov scese dal letto, la raggiunse alla finestra.

«Sei rimasta sveglia tutta notte, eh? Hai gli occhi rossi.»

«Stamattina lanciano il missile» disse Maria.

«Sì.» Markov tirò una boccata di fumo, guardò fuori dalla finestra. Da lì, la piattaforma di lancio non si vedeva.

«È strano pensare» continuò lui «che Stoner sarà più al sicuro nello spazio che qui.»

Lei non disse nulla.

«Se non altro» rifletté suo marito «nello spazio non ci sono assassini.»

Lei continuò a tacere.

Lui la fissò, con aria inquisitrice. «Maria Kirtchatovska, “sarà” al sicuro su quel missile, vero?»

«Sì» rispose automaticamente lei. «Naturalmente.»

Afferrandola alle spalle, Markov sussurrò: «Maria, è amico mio. Non voglio che gli succeda qualcosa.»

«Non c’è nulla che io possa fare ai suoi danni» disse lei.

«Però puoi aiutarlo.»

«No, non posso.»

«È ancora in pericolo, Maria?»

Lei si allontanò dal marito.

Ma lui la strinse di nuovo, più forte. «Maria! Se esiste ancora una possibilità per noi due di vivere insieme, tu devi essere sincera con me. È in pericolo?»

«La cosa non è nelle nostre mani, Kirill» disse Maria, cercando di sfuggire gli occhi di lui. «Non possiamo farci niente.»

«Non possiamo fare niente per cosa?» La voce di Markov stava diventando frenetica.

«Non lo so!» gemette lei. «Le decisioni che si stanno prendendo… Kirill, non dovremmo nemmeno pensarci! Non ci riguarda!»

«Sì che ci riguarda!» La voce di Markov era tagliente, implacabile. «Se lasci che uccidano Stoner, lasci anche che uccidano noi.»

«Kir, non posso…»

«Cosa faranno?»

«Non lo so.»

«Ma faranno qualcosa?»

«Esistono… fazioni, ai massimi livelli di autorità.»

«Devi scoprire cosa hanno intenzione di fare, Maria. Prima che lui salga su quel missile!»

«Non sarà il missile a ucciderlo» disse lei. «Questo lo so. Non vogliono che il lancio fallisca. Il mondo intero lo seguirà per televisione.»

«E allora?»

«Come posso saperlo, Kir? Se anche solo tentassi di scoprirlo, significherebbe… Non posso, Kir. Non posso.»

Markov la circondò con le braccia, la strinse. La sua voce si fece dolce, quasi carezzevole.

«Devi, Maria. È l’unica speranza per noi, per tutti noi. Devi scoprire cosa vogliono fargli. E in fretta.»

Le loro voci svegliarono Jo. Le pareti sottili che dividevano le stanze al secondo piano non lasciavano filtrare parole comprensibili, ma dal ritmo delle voci lei capì che due russi stavano discutendo animatamente.

Si lavò e si vestì in fretta. Solo quando arrivò davanti allo specchio, per mettersi il rossetto sulle labbra, si accorse che le tremavano le mani.

Fu la prima a scendere a pianterreno. La cuoca e la sua aiutante, due russe mogli di tecnici, avevano già preparato la tavola. Dalla cucina giungeva il profumo di cereali cotti, uova, prosciutto, e frittelle.

Quando Markov scese, era teso come una corda di violino; lo seguiva la moglie, cupa in viso. Jo capì che erano state le loro voci a svegliarla. Nel giro di qualche minuto arrivarono i due scienziati cinesi, poi Zworkin e due dei suoi assistenti. Nessuno parlò molto. La tensione, nell’aria, era come elettricità ad alto voltaggio.

Jo non riuscì a mangiare. Sorseggiò una tazza di caffè, e intanto fuori si fermò un camioncino. Sei tecnici in tuta bianca entrarono, dissero qualche parola in russo a Zworkin, poi salirono di sopra.

Jo li seguì. Salendo le scale, si accorse di avere Markov alle spalle.

«Mi tremano le mani» gli disse.

«Sì» rispose lui. Nient’altro.

Stoner era in corridoio. Indossava anche lui una tuta che gli avevano dato i russi. Il gruppo di tecnici lo circondò come una falange di guardie del corpo, come una scorta di sacerdoti vestiti di bianco.

«Vado io con lui» borbottò Markov, superando Jo.

«Kirill!» disse Stoner, con un sorriso allegro. «Buongiorno. Vuoi essere così gentile da dire a questi signori che sono pronto a partire? Cosa aspettiamo? Diamo il via allo spettacolo.»

Markov tradusse in russo. I tecnici risero e annuirono, cominciarono a ridiscendere. Jo si scostò per lasciarli passare, e vide che Zworkin e tutti gli altri si erano radunati ai piedi delle scale, a testa in su.

“Il comitato d’addio” pensò la ragazza.

Quando le arrivò vicino, Stoner si fermò. «Arrivederci, piccola. Grazie di tutto.»

Lei restò come paralizzata, incapace di muovere le mani, stretta contro la parete dalla folla di tecnici.

«Buona fortuna, Keith» riuscì a sussurrare.

Lui si chinò su di lei, la sfiorò con un bacio. «Tornerò» le sussurrò.

Poi scomparve giù per le scale, preceduto da Markov, col gruppo di tecnici alle spalle.

Jo restò lì, improvvisamente sola in corridoio, e pensò: “Se non altro, sta per partire. Adesso non tenteranno più di fargli del male. Ucciderebbero anche il cosmonauta che andrà con lui”.

A Washington era quasi mezzanotte, ma le luci splendevano nell’ufficio ovale, dove erano radunati i consiglieri del presidente.

«Quanto manca al lancio?» chiese l’addetto stampa.

«Meno di due ore» rispose il consigliere scientifico.

«Quand’è che cominciamo a pregare?» gracidò il senatore Jay, che si stava dedicando al terzo scotch della serata.

«Io ho cominciato un’ora fa» rispose il presidente da dietro il tavolo.

Gli occhi di tutti erano incollati sullo schermo televisivo incorporato a una parete dell’ufficio ovale. Lo schermo mostrava le immagini trasmesse da Tyuratam senza le interruzioni pubblicitarie. Il presidente, premendo un pulsante sul suo tavolo, poteva ricevere il commento audio della stazione che preferiva, oppure il commento degli esperti della NASA che seguivano la trasmissione dagli uffici nel seminterrato dell’Ala Ovest. In quel momento, su uno schermo più piccolo appariva, a lettere elettroniche, il commento della CBS. Il presidente aveva abbassato a zero il volume.

Walden C. Vincennes, bello e abbronzato sotto la criniera leonina, era riuscito a impossessarsi della vecchia sedia a dondolo di Kennedy e a sistemarla alla destra del tavolo del presidente.

«Se la missione andrà bene, signor presidente» disse, e la sua voce melodiosa, baritonale, sovrastò ogni altra conversazione nella stanza «le sue azioni saliranno alle stelle.»

«Forse» disse il presidente. «Vedremo.»

L’addetto stampa concentrò tutta la sua attenzione sui due uomini, anche se sedeva al lato opposto della stanza, stretto sul divano tra il senatore Jay e il generale Hofstader.

Vincennes sorrise come una star del cinema. «Sa, signor presidente, se tutto andrà per il meglio forse gli americani le chiederanno di ripensare alla sua decisione di non presentarsi alle elezioni.»

Il presidente scosse la testa. «Ne dubito.»

«Il partito potrebbe avanzare una proposta in questo senso.»

«No.»

«Ho sentito… voci.»

Il presidente fece uno sforzo per staccare gli occhi dallo schermo. «Walden, “se” entreremo in contatto con l’astronave aliena e “se” gli alieni non saranno ostili e “se c’è” parecchio da guadagnare da questo contatto… non crede che avrò un sacco di cose da fare tra oggi e novembre? Come potrei sostenere una campagna elettorale e contemporaneamente far fronte a tutti questi impegni?»

Vincennes assunse un’espressione pensosa. Il suo sorriso si smorzò gradatamente, ma all’addetto stampa parve che i suoi occhi fossero ancora più allegri di quando sorrideva.