«Immagino che abbia ragione» disse Vincennes.
«E se la missione dovesse fallire» continuò il presidente «se quell’uomo morisse o l’alieno fosse ostile, mostruoso… sarei finito completamente.»
«Vero. Ma sono sicuro che andrà tutto bene.»
L’addetto stampa rise in silenzio. “Vincennes mira alla candidatura del partito. Mi venga un colpo! Vuole davvero presentarsi alle elezioni!” Poi, tornato serio, pensò: “Dovrò avere un lungo colloquio con lui. Gli servirà uno staff d’esperti, dopo tutto”.
In California erano le nove di sera. Tutti gli spettacoli più importanti erano stati annullati per la ripresa in diretta dell’impresa spaziale.
Doug ed Elly Stoner guardavano la televisione nel soggiorno dei nonni. La madre era uscita con amici. Seduti accanto ai nonni, seguirono le spiegazioni di Walter Cronkite.
«Questa sarà la missione spaziale con equipaggio umano più difficile e complessa che sia mai stata tentata. Astronauta e cosmonauta, infatti, dovranno spingersi nello spazio a una distanza quattro volte superiore alla distanza massima raggiunta da un essere umano.»
Cronkite sedeva a una scrivania curva piena di strumenti elettronici. Alle sue spalle, una mappa a quattro colori mostrava le posizioni della Terra, della Luna, e della nave aliena.
«I cosmonauti russi che si trovavano sulla stazione spaziale sovietica Salyut Sei hanno già assemblato i tre moduli lanciati da Tyuratam nel corso delle ultime due settimane.»
Al posto della mappa, dietro l’orecchio di Cronkite apparvero le immagini dei moduli. Erano cilindri color argento con pannelli di accumulatori d’energia solare che sporgevano ai lati. Su ogni modulo erano dipinte le lettere CCCP.
«I moduli contengono le apparecchiature per il riciclaggio dell’aria, il cibo e l’acqua per la missione che durerà due settimane» continuò Cronkite «nonché la strumentazione scientifica che l’astronauta americano e il cosmonauta russo useranno per studiare la nave aliena, e, se tutto andrà “alla perfezione”, per eseguire il rendez-vous spaziale con questo visitatore giunto da un lontano Sistema Solare.»
Doug si agitò sul divano, irrequieto: aveva voglia d’una birra. Sua sorella gli scoccò un’occhiataccia, poi riportò l’attenzione allo schermo.
«A pilotare la Soyuz sarà il maggiore Nikolai Federenko, un veterano delle tre precedenti imprese spaziali sovietiche. Lo scienziato-astronauta sarà il dottor Keith Stoner, della National Aeronautics and Space Administration degli Stati Uniti, la NASA. Il dottor Stoner…»
Per chissà quale ridicola ragione, gli occhi di Doug si riempirono di lacrime. Senza distogliere gli occhi dal televisore, ringraziò il cielo che la stanza fosse troppo buia perché i nonni e sua sorella potessero accorgersene.
Markov non aveva figli, e il suo unico parente vivente, una sorella più anziana, si era sposata e trasferita in una città industriale del Caucaso quando Kirill studiava ancora. Quindi, la tempesta emotiva di accompagnare Stoner in quel lunghissimo mattino lo colse alla sprovvista.
Come traduttore ufficiale, Markov seguì l’americano passo dopo passo: entrarono assieme al centro di lancio, dove Stoner fu sottoposto agli ultimi controlli medici (un semplice esame del sangue e un elettrocardiogramma), poi scesero per la vestizione.
«Mi sembra di essere uno sposo che si mette lo smoking» disse Stoner, mentre un paio di tecnici lo aiutavano a infilarsi la goffa tuta spaziale.
Markov, seduto su una panca, ribatté: «No, sei il guerriero che indossa l’armatura.»
Poi salirono su un minibus e raggiunsero la piattaforma di lancio. Assieme ad altri quattro tecnici, salirono in ascensore sino alla sommità della torre, A Markov sembrava che Stoner fosse stato inghiottito da un mostro bianco senza testa, e avvertiva una sensazione di vuoto allo stomaco, come se avesse scordato qualcosa d’importanza vitale, come se stesse per accadere qualcosa di terribilmente sbagliato.
“Ma questi sono tutti uomini in gamba, onesti. Hanno consacrato l’esistenza ai programmi spaziali. Non saboterebbero mai deliberatamente il loro stesso lavoro. Non potrebbero farlo!”
Eppure, si senti tutt’altro che rassicurato. “Una mela marcia è sufficiente” gli sussurrò il cobra raggomitolato nel suo cervello.
L’ascensore si spalancò su una piattaforma chiusa ai lati, piena di tecnici nelle inevitabili tute bianche. Un tubo dalle pareti grigie partiva dalla piattaforma e arrivava al portello della Soyuz.
Stoner si girò verso l’amico. «Qui devi fermarti, Kirill. Il resto del percorso è riservato all’equipaggio.»
Markov vide che il cosmonauta, il maggiore Federenko, aveva già percorso una parte del tubo: la tuta sigillata, il casco sotto il braccio, aspettava l’altro.
«Tutto a posto» disse Stoner. «Federenko parla l’inglese piuttosto bene. Non mi perderò.»
Markov si costrinse a sorridere. «Buona fortuna, Keith. Vaya con Dios.»
Stoner ricambiò il sorriso. «Et cum spirito tuo, vecchio mio. Ci vediamo quando torno.»
Markov restò lì; e, guardando Stoner che s’avviava lungo il tubo verso il cosmonauta, si sentì terribilmente mutile e triste.
«Salve, Nikolai» sentì dire Stoner. «È una giornata ottima per volare.»
«Sì, sì» rispose Federenko, con la sua voce profonda, da basso, che riecheggiò sulle pareti del tubo. «Ottima giornata. Ottima.»
“Sono come due giovani cavalieri che partono alla ventura” pensò Markov. Poi capì perché si sentisse tanto triste: non lo portavano con loro.
Scese in ascensore, e il minibus lo riportò al centro controllo lancio. Maria lo aspettava, in uniforme.
«Spero che vada tutto bene» disse.
Markov annuì, circondò col braccio le spalle della moglie. Incredibilmente, lei non si oppose.
«Il futuro del mondo è nelle loro mani, Marushka» le disse lui. «Il nostro futuro, il futuro della Russia, dell’America… il futuro del mondo intero.»
Maria lo guardò. «Non succederà niente» gli assicurò. «Il lancio sarà perfetto. Vieni, entriamo nel centro di controllo.»
Quando il sole si levò sulle colline lontane e le nebbie del mattino di Roma cominciarono a dissolversi, il papa si alzò dall’inginocchiatoio e raggiunse lentamente la porta della sua cappella privata.
Ci sarebbe stato il cardinale Benedetto, lo sapeva. E Von Friedrich, e molte altre persone. Gli inviati della televisione. I paparazzi. E lui doveva rendere tutto semplice, tradurre la situazione in poche parole che chiunque potesse comprendere. Non avrebbe parlato semplicemente alle telecamere e ai giornalisti, ma a centinaia di milioni di credenti e, stranamente, anche a miliardi di non credenti. Il papato era un grande peso, un peso di portata mondiale. Adesso stava per diventare interstellare.
“Ecco cosa dirò” pensò il papa, annuendo piano. “Dio, nella Sua benevolenza e saggezza, ha ritenuto opportuno svelarci nuovi segreti della Sua creazione. È una fortuna eccezionale vivere in quest’epoca. Questo oggetto alieno riafferma la verità di Cristo: tutti gli uomini sono fratelli.”
Per un istante fugace, si chiese di nuovo quali sarebbero state le conseguenze se gli alieni si fossero rivelati malvagi, maligni.
Non può essere, si ripeté fermamente. Non posso crederlo. Dio non permetterebbe mai che un male simile scenda sulle nostre teste.
Sicuro di sé, spalancò le porte. Le luci degli operatori televisivi si puntarono su di lui; la folla di giornalisti si accalcava contro i drappi rossi messi per l’occasione.
Le luci abbaglianti filtrarono sino nella cappella, dove, sopra l’altare a cui si era inginocchiato il papa, un affresco medievale del Diluvio ritraeva un’umanità peccaminosa castigata da un Dio terribile nella sua ira.