L’uomo a fianco di Markov strillò, con una vocetta acuta: «Sappiamo di almeno quattro centri occidentali che si occupano solo delle emissioni radio dei pianeti. Gli americani stanno addirittura rilevando la mappa di Venere col radar! Avete idea delle attrezzature che occorrono per un’impresa simile? No… Se noi abbiamo individuato quegli strani segnali da Giove, anche loro li hanno individuati. Questo è certo.»
«Ma perché non hanno pubblicato nessun articolo? Ormai sono passati diversi mesi, e gli americani hanno sempre fretta di pubblicare.»
«Pubblicare o morire» disse l’accademico Bulacheff, con un sorriso lento. «Col loro sistema, uno scienziato deve pubblicare di continuo, se non vuole restare indietro nella competizione per il denaro e il prestigio.»
La conversazione scivolò in una serie di ipotesi su quanto stavano facendo gli americani. Markov si appoggiò all’indietro sulla sedia e studiò Bulacheff. Era un uomo vecchio, dal viso sottile e pallido. I pochi capelli che gli restavano sul cranio nudo erano bianchissimi e soffici, come una spruzzata di neve trasportata dal vento nella tundra. Il vecchio sembrava piuttosto divertito dalla situazione. Si accorse che Markov lo stava osservando e gli restituì un sorriso minimo.
«I segnali possono essere soltanto una di due cose» disse Bulacheff. La sua voce dolce era un po’ tremolante, ma tutti si girarono ad ascoltare.
Alzando un dito, l’accademico disse: «Potrebbe trattarsi di un processo naturale del pianeta Giove che sta producendo quelle onde radio. Con ogni probabilità è tutto qui, e niente di più. Dopo tutto, sono appena pochi decenni che studiamo le emissioni radio di Giove. E il pianeta esiste da più di quattromila milioni d’anni. Chi siamo noi per dire cos’è naturale e cos’è anomalo?»
Nessuno mise in dubbio l’affermazione. Il colonnello tossicchiò e prese una sigaretta.
«La seconda possibilità?» chiese cortesemente Markov.
«Potrebbe trattarsi di un tentativo deliberato di comunicazione da parte di una razza intelligente di creature di Giove. Personalmente, trovo difficile accettare l’idea, però dobbiamo ritenerla possibile almeno finché non saremo in grado di smentirla.»
Attorno al tavolo, tutti annuirono. “Con una certa paura” pensò Markov.
«Professor Markov» disse Bulacheff «lei è un noto esperto di lingue antiche, e ha scritto un’interessantissima monografia sui linguaggi extraterrestri.»
Markov si accorse di arrossire. «È un libro che ho scritto solo per divertimento. Non voleva essere un testo da prendere sul serio.»
Bulacheff sorrise approvando.
«Forse. Comunque, era un’opera meditata. Ci occorre il suo aiuto. Le saremmo grati se volesse esaminare tutti i dati che abbiamo raccolto, per poi dirci se, secondo lei, questi impulsi radio possono essere un linguaggio.»
«O un codice» aggiunse Maria.
«Ne sarei lietissimo» disse Markov all’accademico. «E più che lieto di lavorare con lei, signore.»
Bulacheff inclinò leggermente la testa, accettando il complimento. «Ora, colonnello, se è davvero preoccupato per gli americani, le suggerisco di prestare un’attenzione particolare alla conferenza astronomica internazionale che si terrà a Parigi il mese prossimo. Gli americani invieranno un’ampia delegazione, come al solito. Dovremmo riuscire a scoprire cosa sanno.»
«Parleranno liberamente?» chiese qualcuno.
Il viso grinzoso di Bulacheff si piegò in un sorriso condiscendente. «Gli americani sono fissati con la libertà di linguaggio. Non capiscono quando non devono parlare.»
«E se per caso» disse Maria «non raccontassero niente di quei segnali radio?»
Il sorriso del vecchio scomparve. «La cosa di per sé sarebbe significativa. Molto significativa.»
Il colonnello appoggiò sul tavolo i palmi grassocci delle mani. «Benissimo. Scelga le persone che devono partecipare alla conferenza» disse a Bulacheff. «Io aggiungerò qualcuno dei miei.»
Bulacheff annuì.
“Ha assunto la direzione del progetto” pensò Markov.
«Però si ricordi una cosa» ammonì il colonnello.
Tutti si girarono verso di lui.
«Se dovessimo appurare che quei segnali giungono realmente da una razza intelligente, dobbiamo essere certi che sia l’Unione Sovietica, e “solo” l’Unione Sovietica, a entrare in contatto con quelle creature. Non dobbiamo permettere che una tecnologia tanto avanzata cada in mano all’Occidente.»
6
…Come potrebbe essere effettuata una simile comunicazione? I veicoli spaziali viaggiano con estrema lentezza. Una missione standard per la Luna dura qualche giorno, per i pianeti più vicini qualche mese, per i confini del sistema solare qualche anno… Persino le stime più ottimistiche situano la civiltà più vicina a qualche centinaio di anni luce, e un anno luce rappresenta circa nove bilioni e mezzo di chilometri. Alle navi spaziali che possediamo al momento occorrerebbero decine di migliaia d’anni per superare la distanza che ci divide dalla stella più vicina, e diverse decine di milioni d’anni per arrivare alla civiltà che si suppone più vicina a noi.
Un mezzo più veloce e più affidabile di comunicazione interstellare è inviare o ricevere segnali radio che viaggino alla velocità della luce.
Gli occhi di Stoner si aprirono di scatto, veloci come l’accendersi di una lampadina. Era coricato sul letto, ancora vestito. Si era addormentato.
Adesso era mattino, un mattino grigio e umido. La pioggia tamburellava alla finestra.
La porta sul corridoio si aprì e Dooley entrò di schiena, reggendo il vassoio della colazione. Era stato il suo bussare veloce a svegliare Stoner. Oltre la soglia vedeva l’altro agente in corridoio: lo soppesava tranquillamente, pronto a tutto.
«Colazione a letto» disse allegramente Dooley. «Mica male, eh?»
Stoner annuì, indifferente, e Dooley uscì subito. La porta si chiuse, scattò il lucchetto.
Nonostante tutto, Stoner scoprì di avere appetito. Succo di frutta, uova, pancetta, tartine, marmellata e caffè si trasformarono ben presto in briciole e macchie sulla tovaglietta di carta.
Andò alla finestra, guardò fuori e cercò di scoprire dove si trovasse. La pioggia stava strappando le ultime foglie agli alberi. Nubi basse e grigie sfilavano in cielo. “Probabilmente da est verso ovest” pensò lui. “Quindi, in questo momento dovrei guardare a nord, più o meno.”
Il paesaggio non offriva elementi da poter riconoscere, solo colline boscose che potevano trovarsi in qualsiasi punto del New England. Non avendo altro da fare, Stoner fece la doccia. In bagno c’era un rasoio elettrico. “Hanno pensato a tutto” rifletté. “E non risparmiano precauzioni coi loro prigionieri.” Frugando nei cassetti dello scrittoio e nell’armadio, trovò un maglione azzurro e un paio di calzoni marroni che gli andavano quasi bene. Le maniche e le gambe dei pantaloni erano corte. Se non altro, non erano un’uniforme da carcerato.
Niente libri in camera. Niente televisore. Niente telefono. Il letto era matrimoniale. La coperta imbottita di ciniglia, di quelle che una casalinga della media borghesia potrebbe comprare per la stanza degli ospiti, era tutta spiegazzata e ricadeva a metà sul pavimento. La poltrona era l’incubo di qualsiasi arredatore. Il tappeto era beige, folto, ordinario. Il comodino era una variante irriconoscibile del tipo di mobili venduti dalle organizzazioni per corrispondenza.
Una strana stanza nella quale trovarsi prigioniero.
Stoner scrollò mentalmente le spalle, meditò di fare qualche esercizio per riscaldarsi, invece cominciò a passeggiare. Era alla finestra quando lo spalancarsi improvviso della porta lo fece sobbalzare.