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«Adesso ci mettiamo in contatto radio con la Salyut, poi iniziamo l’Attività Extra Veicolare per agganciare i moduli con le apparecchiature e i rifornimenti.»

Stoner prese il fermadocumenti metallico sul pannello alla sua destra. In russo e in inglese erano elencate tutte le attività che dovevano compiere, il giorno e l’ora in cui iniziarle, il tempo previsto per il loro completamento.

«La prima AEV è tua» disse.

«Da.»

«Be’, io terrò d’occhio la bottega.»

Federenko gli lanciò un’occhiata perplessa. «Quale bottega?»

«E un nostro modo di dire» cercò di spiegargli Stoner.

Federenko ascoltò, fece una smorfia. «Ma qui non c’è nessuno che possa rubare in bottega.»

Con una scrollata di spalle sotto la tuta, Stoner disse: «Nikolai, lo sai com’è nelle società capitaliste. Abbiamo tanti ladri che ci aspettiamo di trovarli da per tutto.»

L’ironia non ebbe effetto sul cosmonauta. «Ma non ci sono ladri in orbita. Non ci sono ladri sulla Salyut. Sono due ottimi cittadini sovietici, ufficiali dell’Armata Rossa.»

Stoner, dopo un sorriso fiacco, si arrese.

Borodinski stava usando il videotelefono speciale che il segretario generale aveva fatto installare nei suoi appartamenti. L’uomo dal viso bovino che appariva sullo schermo indossava una divisa militare, e portava i gradi di generale di corpo d’armata.

«Questa linea telefonica è al sicuro da intercettazioni?» chiese Borodinski, quasi in un sussurro.

«Sì, compagno. Naturalmente.»

«Ho gravi notizie che non debbono arrivare a nessun altro finché non vi richiamerò.»

«Ho già custodito segreti di stato in passato, compagno» disse il generale, con un sorriso appena accennato agli angoli della bocca.

«Il nostro grande amico è morto.»

«No!»

«Pochi minuti fa. I dottori hanno confermato. Non c’è speranza di riportarlo in vita.»

Il generale parve genuinamente rattristato alla notizia. «Era un brav’uomo. Un ottimo uomo. Un compagno eccezionale.»

«Capite perché questa notizia dev’essere tenuta segreta per le prossime ore?»

«Certo, compagno. Dovrete fare molte telefonate, controllare molti… particolari.»

«Ho chiamato voi per primo» disse Borodinski «perché voglio sottolineare il fatto che le linee politiche del segretario generale sono ancora valide, e che quindi vanno seguite esattamente com’era nei suoi desideri.»

«Sì, compagno. E il Presidium…?»

«Per il momento la cosa non la riguarda. La questione più importante è quella dei missili. Sono pronti a essere lanciati, qualora fosse necessario?»

«La forza d’attacco strategico è sempre pronta, compagno.»

«Alludevo» spiegò pazientemente Borodinski «ai missili per la nave aliena.» E si chiese: “Lo fa apposta a fingere di non capire?”.

«Oh! Quelli! Sì, compagno, sono pronti per un lancio immediato. I radar ci forniscono di continuo i dati sulla posizione dell’alieno. Le testate nucleari sono armate e pronte.»

Borodinski annuì. «Molto bene. Tenete pronti i missili. E stia pronto anche lei. La chiamerò io, personalmente, se il loro uso si rendesse necessario.»

«Capisco, compagno. Saranno pronti, e lo sarò anch’io.»

Borodinski interruppe la comunicazione, e il viso del generale scomparve dallo schermo. Poi Borodinski si girò a guardare il corpo del segretario generale sul letto: a occhi chiusi, mani intrecciate sul petto.

«Quante cose da fare» mormorò tra sé. Adesso iniziava il vero lavoro. E i veri pericoli. Una cosa era ricevere le redini del potere, e una cosa completamente diversa riuscire a tenerle in mano.

Borodinski scosse la testa. Per un brevissimo momento, quasi invidiò il sonno tranquillo del segretario generale.

Stoner si girò sul sedile quando Federenko aprì il portello che immetteva al modulo orbitale e tornò strisciando in cabina di comando. Il cosmonauta raggiunse il proprio sedile ed emise un sospiro di sollievo.

«Ho impiegato più del tempo previsto, vero?» Respirava pesantemente, e la tuta aveva macchie scure di sudore.

Stoner guardò il portadocumenti che fluttuava all’altezza del suo ginocchio. «Diciotto minuti in più. Non male. Abbiamo ancora molti tempi morti nell’ordine di servizio.»

Federenko si passò una mano sugli occhi. «Là fuori è tutto così diverso… Un lavoraccio.»

«Lo so.»

Scrutando dall’oblò posto sopra il sedile. Stoner riusciva a intravedere la forma tozza della stazione spaziale Salyut. I due cosmonauti che per tutto il mese avevano vissuto e lavorato nella Salyut si erano assunti il compito di collegare i moduli alla Soyuz.

“Il prossimo turno è mio” pensò Stoner. Lavorare a gravità zero sembra semplice, ma lui sapeva quanto fosse facile stancarsi. Ogni movimento fatto in assenza di peso dev’essere coscientemente, deliberatamente bilanciato da un contromovimento. Non esiste frizione che faccia terminare in modo “naturale” i movimenti. Non esistono indicazioni visive subliminali per giudicare le distanze e orientarsi. Non esistono su o giù.

Anni addietro, il generale Leonov, il primo uomo che abbia mai “camminato” nello spazio, aveva consigliato ai suoi cosmonauti: «Riflettete dieci volte prima di muovere un dito, e venti volte prima di muovere una mano» parlando del lavoro nello spazio.

Eppure, Stoner era ansioso di uscire. Impaziente, aspettò e restò a guardare i due cosmonauti all’opera, mentre Federenko tornava nel modulo orbitale della loro nave a succhiare un tè caldo dal contenitore di plastica e a sgranchirsi i muscoli indolenziti. Stoner restò solo nel modulo di comando, circondato dagli strumenti della Soyuz, gli occhi puntati sui due uomini che lavoravano all’esterno.

Alla fine, l’orologio digitale sul pannello di comando gli disse che era giunta l’ora di prepararsi. L’ordine radio da terra confermò.

Federenko rientrò nel modulo di comando e sedette al posto di pilotaggio.

Stoner slacciò la cintura e fluttuò verso il modulo orbitale.

Il modulo orbitale, globulare, serviva da laboratorio, dormitorio e camera d’equilibrio. Stoner s’infilò lentamente la tuta a pressione, controllando con cura ogni cerniera e chiusura, costringendosi a essere preciso e paziente. Il modulo conteneva cuccette, diversi armadietti, e due portelli a tenuta d’aria: uno metteva in comunicazione col modulo di comando, l’altro si apriva sul vuoto.

Federenko lo aiutò a sistemarsi sulla schiena le bombole d’ossigeno e i jet per manovrare. Alla fine, Stoner si mise in testa il casco rotondo e lo collegò ermeticamente al colletto metallico della tuta. Federenko collegò al casco i tubi delle bombole d’ossigeno. Assieme, controllarono la radio della tuta, la pressione dell’ossigeno, l’impianto di riscaldamento. Stoner provò tutti i giunti della tuta, poi annuì verso Federenko e abbassò la visiera sugli occhi. Il cosmonauta tornò nel modulo di comando, chiudendo il massiccio portello a tenuta d’aria.

Adesso Stoner era solo nel grembo di metallo. Tendendo la mano, aprì il portello di sicurezza, poi premette il bottone che metteva in funzione le pompe d’aria. Anche sotto l’elmetto, sentì le macchine che cominciavano a risucchiare l’aria del modulo e la immagazzinavano nei serbatoi.

La luce sul pannello passò dal verde all’ambra, e infine al rosso. Stoner aprì lentamente il portello e uscì, a testa in avanti, dal modulo.

E restò senza fiato.

Per tutti i mesi trascorsi a terra, aveva continuato a ricordare quanto fosse bello lo spazio; ma il ricordo era un’immagine mentale, non la passione viscerale. Adesso era di nuovo lì, e fu travolto da tutta quella bellezza, e boccheggiò.

Davanti ai suoi occhi, scintillava la massa scura e imponente della Terra, con l’azzurro degli oceani striato dal bianco delle nubi: la Terra era enorme, e stupenda. Girandosi piano, Stoner vide le profondità dell’infinito, completamente nere; ma le stelle erano tante da sembrare polvere di diamanti spruzzata su un velluto nero.