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“Oh, Signore, amo la bellezza della Tua casa, e il luogo dove la Tua gloria splende.”

Le parole gli salirono alle labbra mentre, ruotando su se stesso senza sforzo, ammirava il cielo. E poi vide i moduli tozzi che si trovavano a poche dozzine di metri dalla Soyuz. Più avanti, la stazione spaziale Salyut ruotava dolcemente nel cielo, i pannelli di accumulatori solari distesi come ali d’un gabbiano; e la Terra, maestosa, si muoveva dietro la Salyut, sfondo sempre uguale e sempre diverso.

Doveva fare il suo lavoro.

Usando i jet che aveva sulla schiena, Stoner raggiunse i moduli che contenevano le apparecchiature e i rifornimenti. Federenko li aveva collegati l’uno all’altro, e i cosmonauti della Salyut li avevano agganciati alla Soyuz con rigidissimi cavi d’acciaio. Stoner doveva controllare tutti gli agganci, fare l’ultima ispezione. Gli avevano riservato il lavoro meno faticoso.

Si spostò come in sogno, fluttuando dolcemente; ogni movimento era un lungo volo librato senza peso. La mancanza di peso non lo infastidiva, anzi era bellissima. Più divertente che sciare. Era un po’ come cavalcare le onde più alte dell’oceano, al largo, lontano da terra. “Segui la corrente” si ricordò Stoner. “Divertiti finché puoi.”

Controllando a uno a uno tutti i collegamenti che legavano la Soyuz ai moduli, chiacchierò per radio con Federenko. Tutto perfetto: i cosmonauti avevano fatto bene il loro lavoro. La Soyuz era pronta ad affrontare l’incontro con l’alieno.

E Stoner avvertì all’improvviso un senso di riluttanza, di ribellione: non voleva lasciare la libertà dello spazio per tornare nei confini metallici della nave.

«Shtoner» disse in cuffia la voce di Federenko.

«Sì?»

«Il controllo è completato. Adesso torna al portello.»

Stoner guardò la Terra, grande e scintillante e bella da straziare. Girandosi, scrutò le profondità dello spazio stellato. Oh, sì, sapeva cosa aveva sentito Ulisse quando le sirene l’avevano incantato col loro richiamo.

«Shtoner! Mi senti?»

Con uno sforzo, riportò lo sguardo sulla loro nave piccola e sgraziata. «Sì, sì, ti sento. Sto rientrando.»

Ma anche quando rientrò nel portello, i suoi occhi restarono fissi sulle stelle finché la pesante massa di metallo non le nascose completamente.

Jo, seduta alla consolle del computer, guardava numeri e simboli che sfilavano sullo sfondo verde dello schermo.

I tecnici russi la sopportavano al centro controllo missione. Le avevano assegnato una consolle per seguire il procedere del volo, una delle centinaia di consolle che a lunghe file occupavano la grande stanza. All’estremità opposta del locale c’erano enormi schermi televisivi e una mappa elettronica che mostrava dove si trovassero le diverse navi (la Soyuz, la stazione orbitale Salyut e l’astronave aliena) rispetto alla Terra e alla Luna.

I tecnici tolleravano la presenza di una donna americana al centro, ma le autorità preposte alla sicurezza erano chiaramente in allarme. Entrando e uscendo dal centro, Jo veniva scortata da guardie in uniforme e armate. Markov sedeva alle sue spalle, tirandosi nervosamente la barba e fumando sigarette a ripetizione. Spesso entrava sua moglie, si sedeva al suo fianco. Anche lei portava un’uniforme, per quanto Jo non sapesse a quale corpo appartenesse, e non volesse saperlo.

I comandi della consolle servivano esclusivamente per chiedere dati, non per elaborarli. Jo era lì come osservatrice, e le autorità russe avevano messo subito in chiaro che lei non era un membro attivo della missione. Da come dicevano “osservatore” era chiaro che, nella loro lingua, il termine equivaleva semanticamente a “spia”.

Jo poteva guardare, poteva osservare, ma non intervenire.

Lasciò vagare lo sguardo nel grande locale. La tensione delle prime ore era svanita. Il centro aveva un’atmosfera tranquilla, quasi pigra. Persino Markov sembrava più rilassato. La Soyuz aveva superato l’orbita della Luna circa quarantotto ore prima. Stoner e Federenko erano a una distanza dalla Terra mai raggiunta da nessun essere umano.

La mappa elettronica mostrava, dietro la Soyuz, l’aerocisterna senza equipaggio lanciata dagli Stati Uniti. Stava percorrendo una traiettoria diversa, che l’avrebbe portata in contatto con la Soyuz poche ore prima che Stoner e Federenko avvistassero l’alieno.

“In quel momento, avranno un sacco di cose da fare” pensò Jo. “E anche noi.”

Nel giro di venti ore, il centro sarebbe stato un ribollire di attività: prima per dirigere l’aggancio con la cisterna, poi per il rendez-vous con l’alieno.

Ma adesso era tutto tranquillo.

Metà delle consolle non erano occupate, e i tecnici che si trovavano al proprio posto sembravano tranquilli, quasi indifferenti. Persino i pochi che parlavano al microfono o sfioravano interruttori e tasti della consolle non dimostravano la minima fretta.

“Va tutto bene” pensò Jo. “Keith è al sicuro. Ed è troppo tardi per sabotare la missione. Tutti i lanci sono andati perfettamente, tutti i veicoli stanno seguendo la traiettoria prevista. Keith è al sicuro, a quasi un milione e mezzo di chilometri dalla Terra.”

Stoner si grattò pigramente la barba, che cominciava a dargli fastidio.

Aveva un desiderio folle di un bagno caldo. Federenko, sporco e stanco quanto lui, sedeva calmissimo alla sinistra di Stoner controllando il piano di volo della missione. Il modulo di comando puzzava di sudore e calore umano.

«Staccare il modulo dei rifornimenti non è un problema» stava spiegando Federenko. «I bulloni esplosivi faranno saltare il cavo, e il modulo si staccherà.»

«È la quarta volta in un’ora che me lo ripeti» ribatté Stoner. «Sei preoccupato, eh?»

«No, no. Non è un problema.»

«Qualcosa ti preoccupa, Nikolai.»

Il viso del russo s’incupì. «Tu non preoccuparti, Shtoner. Però vedo un problema.»

«L’aerocisterna?»

«Da. Dobbiamo agganciarla prima di tentare il rendez-vous con l’alieno, secondo i piani di volo.»

«Lo so.»

«Però gli ultimi rilevamenti radar mostrano che la cisterna non è nella posizione migliore per noi, Sta deviando dalla traiettoria prevista.»

«Possiamo sempre raggiungerla, no?»

Federenko annuì, serio. «Però dovremo consumare più carburante del previsto. Ce ne resterà meno per il rendez-vous con l’alieno.»

Stoner rifletté un momento. «Potremmo lasciar perdere la cisterna e risparmiare carburante per il rendez-vous.»

«E non avremmo propellente per tornare sulla Terra» disse Federenko.

«Potrebbero lanciare un’altra cisterna.»

Federenko rise. «Tra quanto? Due giorni? Due settimane?»

«A Cape Canaveral ne hanno pronta un’altra. L’hanno tenuta di riserva nel caso il lancio della prima fallisse.»

«Però quando arriverà la seconda cisterna noi saremo già sulla stessa traiettoria dell’alieno, diretti all’esterno del Sistema Solare. La seconda cisterna non ci raggiungerà.»

«Merda.»

«Dobbiamo agganciare la cisterna» disse Federenko, deciso «anche se significasse rinunciare al rendez-vous.»

«Cristo, Nikolai! Siamo arrivati fin qui per entrare in contatto con quella nave!»

«È vero» rispose tranquillamente il russo. «Però io non desidero effettuare il contatto e non tornare mai più sulla Terra. E tu?»

Stoner non rispose.

«Non preoccuparti» disse Markov, «Non avranno difficoltà a raggiungere la cisterna. Hanno carburante più che a sufficienza, stando al controllo missione.»

Markov sedeva a tavola a fianco di Jo, nella sala da pranzo dei loro alloggi. Maria era seduta all’altro lato del marito. Di fronte a loro, uno dei fisici cinesi stava fissando sconcertato il cibo.