«Vuoi che ci provi io?»
Il russo rise. «Tu? Non sei il pilota; sei il passeggero.»
«Allora tocca a te» ribatté Stoner.
La risata si spense. «Vedo» disse Federenko. «Mi avevi preparato la trappola, eh?»
«Voglio che tu capisca quanto è importante. Devi effettuare l’aggancio con la cisterna al primo tentativo. Se no, addio alieno.»
Federenko annuì, con aria infelice. «Hokay, Shtoner. Hai vinto. Aggancerò la cisterna al primo passaggio.»
Stoner sorrise. «Visto? Non ero per niente depresso.»
Markov correva alla cieca sotto la pioggia. Le sue gambe lunghe lo trascinavano automaticamente verso il centro di controllo. Zworkin. Il vecchio scienziato non era in camera, quando Markov aveva bussato alla sua porta.
“Dev’essere al centro di controllo” si ripeté Markov. “Deve esserci.”
Maria era alle sue spalle, in quella corsa disperata verso l’edificio grigio, senza finestre, del centro. La pioggia cadeva forte, costringendolo a tenere gli occhi appena socchiusi.
“Zworkin è l’unico che possa salvarli. Se cerco di parlare col servizio di sicurezza, ogni speranza è persa. Zworkin! E, tramite lui, Bulacheff.”
Stoner non capiva l’affannato discorso russo che stava arrivando via radio, ma dall’espressione cupa del viso di Federenko era chiaro che non si trattava di buone notizie.
Il cosmonauta rispose quasi con rabbia al controllo a terra, e parole ancora più concitate uscirono dalla radio.
Stoner si girò verso lo schermo radar, un minuscolo disco arancione sul pannello tra i loro due sedili. Mostrava un forte segnale di ritorno quasi perfettamente allineato alla nave. Si protese leggermente per guardare dall’oblò, e sì, eccola lì. Una mezza luna di metallo sullo sfondo del buio costellato di stelle.
La cisterna, finalmente. Tanto vicina da essere visibile a occhio nudo.
Però, scrutando l’espressione truce di Federenko, Stoner ebbe un brivido d’apprensione. Sembrava che gli avessero appena ordinato di attaccare a mani nude tutto l’esercito cinese.
«Cosa c’è, Nikolai? Perché hai quell’espressione?»
Federenko si girò verso di lui, un’espressione sconfitta negli occhi.
«La cisterna. Non dobbiamo avvicinarci. Un’avaria.»
«Cosa?»
«Molto strano, a quanto mi dicono. Un’avaria ai circuiti di autodistruzione dell’aerocisterna. Pensano che possa esplodere.»
Le mani del cosmonauta si tesero verso gli interruttori che comandavano i motori di manovra della nave.
«Aspetta!» urlò Stoner. «Se non agganciamo la cisterna, non possiamo completare la missione!»
«Ma se eseguiamo l’aggancio… Bum!»
Stoner si agitò sul sedile. «Non ci credo. Com’è possibile…?»
Con l’angolo degli occhi intravvide un lampo di luce. Tutti e due tesero la testa verso l’oblò. Nel silenzio più perfetto, l’aerocisterna esplose: tre piccole fiammate seguite immediatamente da un’enorme sfera di fuoco che quasi li accecò.
Stoner chiuse di scatto gli occhi. Federenko borbottò sottovoce qualcosa che l’americano non riuscì a capire.
La sfera di fuoco svanì nel nulla, lasciando sulle pupille di Stoner un bagliore intensissimo. Non ci furono onde d’urto, o rumori, e nello spazio non apparvero frammenti. Sembrava quasi che avessero visto un film muto. Stoner non riusciva a credere che fosse successo davvero.
«Andata» disse gravemente Federenko.
Stoner si sfregò gli occhi, poi guardò di nuovo fuori dall’oblò. Nulla, se non stelle lontanissime.
«Andata» ammise. «E adesso a che punto siamo?»
«Siamo due uomini morti, Shtoner. Senza il carburante della cisterna, non possiamo tornare sulla Terra.»
Passò qualche minuto prima che lui comprendesse sino in fondo il significato di quella risposta. Alla fine, si sentì dire: «Però abbiamo carburante a sufficienza per il rendez-vous con l’alieno, no?»
Federenko gli lanciò un’occhiata lunga, solenne. «Da» disse. «Tutto il carburante che ci occorre per le manovre.»
«E allora eseguiamo questo rendez-vous!» disse Stoner. «È per questo che siamo venuti qui, no? Facciamolo!»
Sul viso di Federenko apparve un pallido sorriso. «Sapevo che l’avresti detto, Shtoner.»
«Cos’altro potremo fare?» ribatté Stoner, stranamente eccitato. «Forza, andiamo!»
43
«Ehi, uomo, è ora di uscire!»
Hank Garvey piazzò il suo corpo massiccio sulla scrivania dell’analista di computer e si chinò verso l’altro, più giovane e magro.
«C’è un’emergenza, ragazzo» disse Garvey, con voce mortalmente calma e bassa: un leone che si schiariva la gola prima del ruggito.
«Il prossimo turno…»
«Zio Sam vuole te» disse Garvey. «Tu sei lo stregone di computer più in gamba di tutto il centro. Lo so perché me l’hai ripetuto mille o duemila volte. Adesso dovrai dimostrarlo.»
«Ma mia moglie…»
Garvey appoggiò sulla spalla dell’analista una mano grossa come un pallone da football. «Il nostro Stoner e il suo amico russo sono in pericolo. La cisterna è esplosa.»
«Cristo!»
«L’astronave è intatta, nessun danno. Però non possono tornare qui, a meno che qualche cervellone non gli trovi un nuovo piano di volo e maledettamente in fretta. Hai capito?»
«Merda santissima!» disse l’analista di computer. «Perché non me l’hai detto subito? Okay, okay, alza le chiappe da lì e lasciami lavorare.»
Garvey fece un sorriso immenso. «Bravo, ragazzo.»
Il centro comunicazioni di Kwajalein era nel caos. Persino i tecnici alle consolle urlavano tra loro, in preda alla confusione.
Jeff Thompson stava urlando all’orecchio di Ramsey McDermott: «Non possiamo lasciarli proseguire! Più si avvicinano all’alieno, più sarà impossibile che tornino indietro!»
McDermott restò a bocca spalancata. Da quando, per la prima volta, aveva visto l’aurora boreale farsi beffe di lui, aveva perso cinque chili ed era invecchiato di dieci anni. Il colletto della camicia incorniciava un collo ormai avvizzito. Gli tremavano le mani. I suoi occhi erano privi di fuoco.
Edouard Reynaud, perfettamente guarito, strinse il braccio di Thompson. «Dovete richiamarli. Dovete ordinargli di tornare indietro!»
«Non posso…» mormorò McDermott.
«Ma possono inserirsi in un’orbita lunare» insistette Reynaud. «Ho già le cifre in testa. Dovrebbero avere carburante a sufficienza per la manovra.»
Thompson s’illuminò. «Giusto! Se riescono a inserirsi in orbita attorno alla Luna, forse potremmo lanciare qualcosa che li riporti giù.»
Ma McDermott scosse debolmente la testa. «Stoner non sentirà ragioni…»
«Silenzio!» urlò una voce amplificata.
Tutto si fermò. Le persone s’immobilizzarono dove si trovavano. La stanza piombò nel silenzio, a parte il ronzio delle consolle e dei condizionatori d’aria.
Il vicecomandante Tuttle, microfono in mano, era salito su una scrivania. Si guardò attorno per accertarsi che tutta l’attenzione fosse concentrata su di lui, poi lasciò cadere lungo il fianco la mano che stringeva il microfono.
«Questo è un progetto della marina» disse, con voce forte, sicura. «E io sono l’ufficiale di marina che ne è a capo.»
Thompson fissò il piccolo vicecomandante. Per la prima volta da che si conoscevano, Tuttle dava dignità all’uniforme.
«Lo scopo di questo progetto è entrare in contatto con la nave aliena. Stoner e il russo stanno cercando di farlo. Quindi, rimettetevi tutti al lavoro e smettetela di creare confusione.»
«Ma non riusciranno più a tornare sulla Terra!» urlò Reynaud, e il suo viso s’imporporò di rabbia o d’imbarazzo, o forse di tutt’e due le cose.