Numeri e simboli apparvero all’improvviso sullo schermo del computer, a velocità altissima. Jo alzò gli occhi sugli schermi che trasmettevano l’immagine della nave aliena. A una delle ottanta piattaforme di lancio di Tyuratam, un missile veniva rifornito in fretta e furia di carburante: una nuova aerocisterna che sarebbe stata lanciata con una traiettoria ad alta accelerazione. Gli americani, coi loro computer più veloci e più efficienti, stavano studiando il piano di volo che avrebbe permesso alla cisterna di raggiungere la Soyuz in tempo per salvare i due uomini. Jo era diventata l’elemento di collegamento fra il Texas e Tyuratam.
Il centro di comando ferveva di una frenesia tranquilla, organizzata. Computer e uomini lavoravano al massimo delle loro possibilità. Scrutando nel locale, Markov tenne d’occhio gli agenti del servizio di sicurezza: lo sguardo in continuo movimento, non tenevano mai le mani lontane dalle armi che avevano a tracolla.
“Come se ammazzare tutti potesse servire a qualcosa” si disse.
Zworkin era rimasto al telefono con Bulacheff per un’ora. Grandi sconvolgimenti si stavano preparando. Maria era stata richiamata dai suoi superiori per un interrogatorio. “O diventerà un eroe dell’Unione Sovietica per aver denunciato i sabotatori, o finiremo tutt’e due i nostri giorni in carcere” rifletté Markov. “Dipende tutto da chi sarà a prendere il sopravvento al Cremlino.”
«Ottimo, Houston» disse Jo nel microfono. «I dati stanno arrivando. Grazie.»
Si tolse la cuffia, l’appoggiò sulla consolle. «Hanno messo al lavoro i grandi computer della NASA sulla traiettoria» disse.
«Sarà sufficiente?» si chiese Markov. «Riusciranno a far arrivare in tempo la cisterna?»
Jo lo guardò. I suoi occhi scuri riflettevano fatica e ansietà. «Se non ci riescono loro, non può riuscirci nessuno.»
«E se il comando missione mandasse nuovi ordini, un nuovo piano di volo per riportarci indietro?» mugugnò Federenko, mentre controllava la tuta di Stoner. «Tu sarai là fuori…»
«Resterò in contatto radio» ribatté Stoner.
«Da. E quando io ti dirò di tornare, tu risponderai “Non ancora. Un’altra fotografia”.»
Stoner sorrise. Terminata l’ispezione alla tuta, Federenko gli passò l’elmetto. Stoner lo infilò, abbassò e chiuse la visiera.
«Tornerò quando tu mi dirai che hanno trovato la traiettoria per riportarci a casa» disse Stoner, la voce smorzata dal casco.
Federenko non sembrava convinto. Alzò il pollice, poi tornò nel modulo di comando, chiuse il portello.
Adesso Stoner era solo.
«Prova radio» disse la voce del cosmonauta nella cuffia. «Mi senti?»
«Chiaro e forte.»
«Benissimo.»
Stoner mise in funzione le pompe dell’aria. “Nikolai mi ha dato i suoi jet” pensò. “Se la sua salvezza dovesse dipendere dall’AEV, ha gettato la vita.”
«Shtoner?»
«Sì?»
«Buona fortuna, Shtoner.»
«Grazie, Nikolai. Apprezzo molto… tutto quello che hai fatto.»
«Salutami l’alieno.»
Stoner rise. «Non mancherò.»
Uscita l’aria dal modulo, Stoner aprì il portello, spinse avanti l’altro paio di jet e uscì nel nulla. Si scostò dalla Soyuz, poi ruotò su se stesso per controllare la situazione.
La Terra era molto lontana. Non più massa enorme, era adesso una mezza luna azzurra e bianca sospesa tra buio e stelle. Stoner tese una mano, coprì il pianeta su cui era nato alzando il pollice.
Vedeva anche la Luna, ancora più piccola. La sfera infuocata del Sole era dietro la sua spalla sinistra. Non aveva nessuna intenzione di guardare in quella direzione, ma all’angolo estremo della visuale intravedeva il disco sfolgorante della luce zodiacale del Sole: polvere cosmica, detriti rimasti dalla formazione dei pianeti eoni addietro.
Una piccola spinta dei jet lo portò faccia a faccia con la nave aliena. Il vascello fluttuava, indifferente, all’interno dell’aura di luce pulsante.
Lentamente, tenendo stretta la catena dell’altro palo di jet, Stoner si avvicinò alla nave aliena.
«Nikolai, secondo te questo schermo potrebbe danneggiare un oggetto che si muova lentamente, come me?»
«Potrebbe essere» rispose la voce di Federenko. «Continua a parlare… Viene tutto ritrasmesso automaticamente a Tyuratam.»
«Okay.»
Descrivendo man mano le sue operazioni, Stoner avvolse la catena legata all’altro paio di jet, e quando li ebbe in mano li spinse avanti. La manovra rallentò il suo avvicinamento al vascello alieno. La catena cominciò a srotolarsi di nuovo, lentamente.
«La catena è isolata» disse lui. «Se lo schermo provoca una scarica elettrica, l’energia non risalirà fino a me. Almeno lo spero.»
Trattenne il fiato: i jet raggiunsero lo schermo e lo attraversarono senza nessun effetto visibile.
«Hai visto, Nikolai?»
«Non è successo niente.»
«Infatti. Bene.» Stoner si inumidì le labbra. «Adesso tocca a me.»
«Le telecamere stanno registrando. La trasmissione è perfetta.»
Stoner toccò i comandi alla cintura, avvertì, per una frazione di secondo, la spinta dolce dei jet sulla schiena, come la pacca di incoraggiamento che l’insegnante dà a un bambino riluttante. E Stoner si avvicinò alla luce dorata, pulsante.
«Ci sono quasi…»
Per un attimo, non esistette altro che la luce; la cuffia mandò un crack! secco, e lui si trovò all’interno dello schermo. Si girò a guardare la Soyuz.
«L’ho attraversato! Mi senti ancora?»
«Da.»
«È come trovarsi sotto una cupola trasparente color oro. Vedo attraverso lo schermo. Mi oscura solo un poco i colori.»
«Anch’io li vedo.» In cuffia, la voce di Federenko era forte come sempre, anche se adesso accompagnata da un lieve ronzio in sottofondo.
Stoner avvertiva i battiti frenetici del cuore, «Okay» disse. «Ora… Ora salgo a bordo.»
«Stai attento, Shtoner.»
Il secondo paio di jet andò a sbattere contro il fianco arrotondato della nave e rimbalzò senza danni.
«È cilindrica» disse Stoner «con le estremità a punta. Un po’ come un grosso sigaro. Il colore è un marrone rossiccio chiaro. Sembra fatta di metallo. Non vedo protuberanze o antenne. La superficie è perfettamente liscia. È lunga venti, venticinque metri, e larga cinque o sei.»
Adesso era vicinissimo. La nave incombeva su di lui, occupava tutta la sua visuale. Stoner aveva le labbra secche, e si sentiva bruciare le viscere.
«Il colore è marrone chiaro… L’ho già detto, no? Sembra metallo. Sì, è senz’altro metallo. Lavorato alla perfezione. Non un chiodo. Non una saldatura. Sembra che sia uscita tutta intera da uno stampo, o qualcosa del genere. Nessuna scritta. Nessuna ammaccatura… Sembra nuova di zecca. Lo schermo deve aver distrutto i micrometeoriti e tutti gli altri corpi che ha incontrato…»
Quando raggiunse lo scafo della nave, Stoner protese istintivamente la mano. Toccò il metallo, rimbalzò leggermente, e con una spinta dei jet tornò di nuovo vicino allo scafo.
«Sì, dev’essere metallo. Lo sembra anche al tatto.»
Piantò gli stivali sullo scafo, e le suole restarono attaccate.
«Ehi, credo che sia magnetizzata! Gli stivali mi si sono incollati.» Per staccare un piede, gli occorse solo uno sforzo minimo.
«Gli stivali sono anti-magnetici» lo informò Federenko.
«Be’, qualcosa li tiene attaccati» ribatté lui.
Restò in piedi sullo scafo ricurvo, visitatore solitario di un mondo lungo venticinque metri. Fece un passo, un altro. L’effetto era quello di camminare su una superficie dipinta da poco e non ancora asciutta.
«Mi dirigo verso prua. Almeno, credo sia la prua. Potrebbe anche essere la poppa. Le sue estremità sono identiche.»