«Ammirevole, dal punto di vista scientifico,» disse Jim. «Ma cosa disse a proposito di quello che tu avevi visto?»
«Che si trattava semplicemente di suggestione ipnotica da parte del vecchio sacerdote. Io avevo visto quel che lui aveva voluto che io vedessi… così come prima, guidato dalla sua volontà, avevo visto me stesso arrivare al tempio. La ragazza non si era dissolta. Probabilmente rimaneva nascosta a ridere di me. Ma se tutto ciò che la mia mente ignorante aveva accettato come verità era realmente la verità, allora il mio comportamento era ancora meno perdonabile. Avrei dovuto restare, studiare i fenomeni e riferire i risultati alla scienza che li avrebbe analizzati. Ciò che gli avevo detto del Rituale di Khalk’ru non era altro che la Seconda Legge della Termodinamica, espressa in termini d’antropomorfismo. La vita era veramente un’intrusa nel Caos, usando questa parola per indicare lo stato informe e primordiale dell’universo. Un invasione. Un incidente. Con il tempo tutta l’energia si sarebbe trasformata in calore statico, incapace di generare la vita. Gli universi morti avrebbero galleggiato nel vuoto illimitato. Il vuoto era eterno, la vita no. Perciò il vuoto l’avrebbe veramente assorbita. I soli, i mondi, gli dèi, gli uomini, tutti gli esseri animali sarebbero ritornati al vuoto. Ritornati al Caos. Al Nulla. A Khalk’ru. Oppure, se il mio cervello atavistico preferiva quel termine… al Kraken. Era furibondo.»
«Ma tu hai detto che anche gli altri avevano visto prendere la ragazza. Barr come lo spiegava?»
«Oh, facilmente. Era ipnosi collettiva… come gli Angeli di Mons, gli arcieri fantasma di Crécy e altre allucinazioni collettive della guerra. Io avevo funto… da catalizzatore. La mia somiglianza con l’antica razza tradizionale, la mia completezza di regressione atavica, la mia perfetta conoscenza del Rituale di Khalk’ru, la fede che gli uiguri avevano in me… tutto questo era stato l’elemento necessario per creare l’allucinazione collettiva del tentacolo. Ovviamente i sacerdoti da molto tempo cercavano di rendere operante una droga per la quale mancava una sostanza chimica essenziale. Per qualche ragione, io ero l’elemento mancante… il catalizzatore. Ecco tutto.»
Jim continuò a riflettere, spezzando i fuscelli.
«Come spiegazione è ragionevole. Ma tu non eri convinto?»
«No, non ero convinto… ho visto la faccia della ragazza, quando il tentacolo l’ha toccata.»
Jim si alzò, si voltò a guardare verso settentrione.
«Leif,» chiese improvvisamente, «che cosa ne hai fatto di quell’anello?»
Tirai fuori il sacchetto di pelle, l’aprii e gli consegnai l’anello. Jim lo esaminò attentamente, poi me lo rese.
«Perché lo hai conservato, Leif?»
«Non lo so.» M’infilai l’anello al pollice. «Non lo restituii al vecchio sacerdote; lui non me lo chiese. Oh, diavolo… ti dirò perché l’ho conservato… per la stessa ragione per cui il Vecchio Marinaio di Coleridge si era legato al collo l’albatross morto. Per non dimenticare che sono un assassino.»
Riposi l’anello nel sacchetto di pelle, e me lo lasciai ricadere sul collo. Dal Nord giunse, fievole, un rullo di tamburi. Questa volta non sembrava portato dal vento. Pareva trasmesso dal suolo, e moriva a grande profondità, sotto di noi.
«Khalk’ru!» esclamai.
«Bene, non facciamo aspettare il vecchio signore,» disse gaiamente Jim.
Si diede da fare con gli zaini, fischiettando. All’improvviso si girò verso di me.
«Ascoltami, Leif. Le teorie di Barr mi sembrano fondate. Non dico che se fossi stato al tuo posto le avrei accettate. Forse hai ragione tu. Ma sono d’accordo con Barr, fino a quando gli avvenimenti (se, quando e come avverranno) dimostreranno che lui aveva torto.»
«Magnifico!» dissi di cuore, senza il minimo sarcasmo. «Spero che il tuo ottimismo duri fino a quando saremo tornati a New York… se, come e quando.»
Ci caricammo in spalla gli zaini, prendemmo i fucili e ci avviammo verso settentrione.
Il terreno non era faticoso, ma il cammino quasi continuamente in salita. Il suolo era in pendenza, qualche volta al punto di toglierci il fiato. La foresta, insolitamente fitta ed alta per quella latitudine, cominciò a diradarsi. L’aria diventò sempre più fresca. Dopo aver percorso all’incirca venticinque chilometri, ci trovammo in un territorio di alberi radi e stenti. Otto chilometri più avanti c’era una catena alta trecento metri di nude rocce. Oltre questa, si scorgeva una massa di montagne, alte da milleduecento a millecinquecento metri, prive d’alberi, con le vette ricoperte di neve e di ghiaccio, tagliate da numerosi burroni che spiccavano luccicanti come ghiacciai in miniatura. Tra noi e la catena più vicina si stendeva una piana, coperta da piccoli arbusti di rose selvatiche, di ribes e di altre bacche, e rivestita dei rossi e degli azzurri e dei verdi brillanti della breve estate dell’Alaska.
«Se ci accampiamo alla base di quelle colline, saremo al riparo dal vento,» dissi a Jim. «Sono le cinque. Dovremmo farcela in un’ora.»
Ci incamminammo. Storni di pernici sfrecciarono via, intorno a noi, prendendo il volo dagli arbusti come minuscoli proiettili bruni; pivieri dorati e chiurli fischiavano da ogni parte; ad un tiro di schioppo stava pascolando un branchetto di caribù, e le piccole gru brune si aggiravano dovunque. Nessuno poteva morire di fame, in quella zona, e dopo aver preparato il campo cenammo benissimo.
Non udimmo alcun suono, quella notte… se anche ce ne furono, dormivamo troppo profondamente per sentirli.
La mattina dopo discutemmo il percorso da seguire. La bassa catena stava direttamente davanti a noi, verso Nord. Continuava, aumentando di altezza, tanto a destra che a sinistra. Non presentava serie difficoltà, dal punto in cui ci trovavamo: o almeno, così sembrava. Decidemmo di scalarla, prendendocela con comodo. Fu più difficile di quanto ci era parso: impiegammo due ore per arrivare in cima.
Ci avviammo lungo il crinale verso una fila di enormi macigni che si stendevano davanti a noi come una muraglia. Ci infilammo tra due di essi, e ci affrettammo ad arretrare. Eravamo sull’orlo d’un precipizio che scendeva per un centinaio di metri, a picco, verso il fondo di una stranissima valle, cinta dalle montagne ammantate di neve e di ghiacci. All’estremità opposta, ad una trentina di chilometri di distanza, c’era un picco a forma piramidale.
Al centro, dalla cima al fondovalle, scendeva una lucente striscia bianca: indubbiamente era un ghiacciaio che riempiva un crepaccio, tagliato nettamente nella montagna come se fosse stato aperto da un unico colpo di spada. La valle non era larga, non più di otto chilometri, calcolai, nel punto più ampio. Era lunga e stretta, chiusa all’estremità più lontana dal gigante squarciato dal ghiacciaio: i fianchi erano formati dalle pareti delle altre montagne che, salvo qua e là dove c’erano state delle frane, scendevano ripide quanto il precipizio sotto di noi.
Ma era il fondovalle, quello che incatenava la nostra attenzione. Sembrava un enorme campo piatto, coperto di detriti rocciosi. Laggiù il ghiacciaio fendeva quei detriti per circa metà della lunghezza della valle. Fra le rocce non si scorgeva la minima traccia di vegetazione. Non si scorgeva un po’ di verde neppure sulle montagne circostanti: solo i picchi neri e spogli, con grandi squarci pieni di neve e di ghiaccio. Era la valle della desolazione.