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Più guardavo il fondovalle, e più mi sentivo sicuro della sua realtà. Tutti i miraggi che avevo avuto occasione di vedere — e in Mongolia ne avevo visti molti — erano arretrati, avevano cambiato forma e si erano dileguati via via che mi avvicinavo. Il fondovalle non faceva nulla del genere. Era vero che le pietre sembravano più tozze, mano a mano che scendevamo: ma io attribuii il fenomeno al diverso angolo di visuale.

Eravamo circa ad un trentina di metri dal termine della frana quando incominciai a sentirmi un po’ meno sicuro. La discesa era stata particolarmente difficile. La frana si era ristretta. Alla nostra sinistra la roccia era liscia, e si stendeva fino alla valle come se fosse stata spazzata da una scopa titanica. Probabilmente in quel punto si era staccato un frammento immenso, e si era frantumato formando i macigni che giacevano ammucchiati in fondo. Deviammo verso destra, dove c’era un costone di rocce, spinto a lato da quello stesso crollo. Scendemmo da quel lato.

Poiché ero il più forte, ero io che portavo i nostri fucili, appesi con una cinghia alla spalla sinistra. Portavo anche lo zaino più pesante. Arrivammo ad un punto particolarmente difficile. La pietra sulla quale mi trovavo s’inclinò all’improvviso sotto il mio peso, mi sbilanciò lateralmente. Lo zaino mi scivolò dalle mani, si rovesciò, cadde sulla roccia liscia. Automaticamente mi slanciai in avanti, cercando di afferrarlo. La cinghia che reggeva i due fucili si spezzò, e le armi scivolarono dietro allo zaino rotolante.

Era una di quelle combinazioni di circostanze che ti spingono a credere in un Dio della Sfortuna. L’incidente avrebbe potuto capitare in qualunque altro posto, durante il nostro viaggio, senza la minima conseguenza. E persino in quel momento non gli attribuii eccessiva importanza.

«Bene,» dissi, allegramente. «Questo ci risparmia la fatica di portarli. Potremmo raccattarli quando arriveremo in fondo.»

«Cioè,» disse Jim, «se c’è un fondo.»

Girai gli occhi verso la frana. I fucili avevano raggiunto lo zaino, e tutti e tre stavano scivolando velocemente.

«Ecco, ora si fermeranno,» dissi io. Erano quasi arrivati sui detriti, laggiù in basso.

«Col cavolo,» disse Jim. «Ecco là!»

Mi stropicciai gli occhi, guardai e guardai di nuovo. Lo zaino ed i fucili avrebbero dovuto venire frenati da quella barriera, in fondo alla frana. Ma non era stato così. Erano spariti.

VI

LA TERRA OSCURATA

C’era stato uno strano fremito quando i fucili e lo zaino avevano toccato la barriera di roccia. Poi era sembrato che si fondessero con essa.

«Io direi che sono caduti nel lago,» fece Jim.

«Non c’è nessun lago. Sono caduti in qualche fenditura tra le rocce. Andiamo…»

Mi afferrò per la spalla.

«Aspetta, Leif. Vai piano.»

Guardai nella direzione che lui mi indicava con il dito. La barriera di pietre era sparita. Nel punto dov’era prima, continuava a scorrere la frana, in una liscia lingua di pietra che si spingeva avanti nella valle.

«Andiamo,» dissi io.

Scendemmo, vigilando cauti ogni nostro passo. Ad ogni fermata, il fondo ricoperto di detriti diventava sempre più piatto, i macigni sempre più bassi. Una nube passò sul Sole. Non c’erano macigni. Il fondovalle si stendeva sotto di noi, ed era una liscia distesa grigio-ardesia!

La frana terminava bruscamente sull’orlo di quella distesa. Le rocce finivano altrettanto nettamente, circa quindici metri più avanti. Stavano ritte sull’orlo, e facevano uno strano effetto: sembravano piantate lì al tempo in cui l’orlo era viscoso. Né la piana sembrava solida: anch’essa dava un’impressione di viscosità; era percorsa da un tremore lieve ma continuo, come le onde di calore su di una strada arroventata dal Sole… eppure ad ogni passo il freddo mordeva più forte, fino a quando divenne insopportabile.

C’era uno stretto passaggio, tra i sassi frantumati e la parete ripida alla nostra destra. Ci insinuammo, strisciando. Ci trovammo su di una immensa pietra piatta, proprio sull’orlo della strana pianura. Non era né acqua né roccia: somigliava soprattutto ad un vetro liquido, sottile e opaco, o ad un gas che fosse diventato semiliquido.

Mi distesi sulla lastra e protesi le mani per toccarla. La toccai… non incontrai resistenza: non sentii niente. Lasciai che la mia mano affondasse, lentamente. La vidi, per un momento, quasi riflessa in uno specchio deformante, e poi non la vidi più. Ma c’era un piacevole calore là sotto, dove era sparita la mia mano. Il sangue gelato cominciò a formicolare nelle dita intorpidite. Mi sporsi di più dalla pietra e immersi entrambe le braccia, fin quasi alle spalle. Era maledettamente gradevole.

Jim si lasciò cadere accanto a me e affondò le braccia.

«È aria,» disse.

«Sembra,» cominciai io… Poi all’improvviso ricordai. «I fucili e lo zaino! Se non li ritroviamo, siamo in un bel guaio!»

Lui disse: «Se Khalk’ru esiste… i fucili non serviranno a salvarci.»

«Tu credi che questo…» M’interruppi, rammentando la forma d’ombra nel lago d’illusione.

«Usunhi’yi, la Terra che si Oscura. La Terra Oscurata, la chiamava il tuo sacerdote, non è vero? Direi che questa merita tutti e due i nomi.»

Rimasi in silenzio: quale che sia la certezza di una terribile prova imminente che un uomo porta nella propria anima, non può fare a meno di ritrarsene, quando sa di essere arrivato sulla soglia. E adesso, chiaramente, io lo sapevo. Tutta la lunga strada tra il tempio di Khalk’ru nel Gobi e quel luogo del miraggio venne cancellata. Io stavo passando da quello a questo centro del potere di Khalk’ru… ciò che era stato iniziato nel Gobi doveva essere concluso. Il vecchio orrore ossessivo cominciò ad insinuarsi in me. Cercai di combatterlo.

Avrei accettato la sfida. Ormai nulla, sulla Terra, poteva trattenermi. A quella decisione, sentii l’orrore ritrarsi cupamente e abbandonarmi. Per la prima volta, dopo tanti anni, me ne ero completamente liberato.

«Voglio vedere cosa c’è laggiù.» Jim ritrasse le braccia. «Tienimi per i piedi, Leif,» e scivolò oltre l’orlo della pietra. «Ne ho tastato l’orlo e sembra che prosegua ancora per un po’.»

«Tocca prima a me,» dissi. «Dopotutto, è per me che siamo qui.»

«E io ci riuscirei proprio a tirarti su, se tu cadessi, specie di elefante. Ecco… tienimi forte.»

Ebbi appena il tempo di afferrargli le caviglie, mentre lui strisciava sopra il pietrone: poi la sua testa e le spalle scomparvero. Avanzò, strisciando lungo la roccia inclinata fino a quando le mie mani e le mie braccia vennero nascoste fino alle spalle. Jim si fermò… e poi, dalla misteriosa opacità in cui era svanito mi arrivò una pazza risata.

Lo sentii contorcersi, cercare di liberarsi i piedi dalla mia stretta. Io lo tirai indietro sulla pietra, e lui resistette per ogni centimetro. Uscì scosso da quella stessa risata folle. Aveva il volto arrossato, gli occhi lucenti come un ubriaco: in effetti, aveva tutti i sintomi di una allegra sbronza. Ma il ritmo rapido della respirazione mi disse ciò che era accaduto.

«Respira lentamente», gli gridai nell’orecchio. «Respira lentamente, ti dico.»

Poi, dato che la risata continuava ed i suoi sforzi per divincolarsi non smettevano, lo tenni bloccato a terra con un braccio, e con la mano libera gli chiusi il naso e la bocca. In un momento o due si rilassò. Lo lasciai andare, e Jim si drizzò a sedere, stordito.

«Cose stranissime,» disse con voce impastata. «Ho visto facce stranissime…»

Scosse il capo, trasse un paio di respiri profondi, e tornò a stendersi sulla pietra.

«Cosa diavolo mi è capitato, Leif?»

«Hai preso una sbornia d’ossigeno, indiano,» gli dissi. «Una bella sbronza gratuita di aria carica di anidride carbonica. E ciò spiega molte cose, a proposito di questo posto. Sei uscito respirando tre volte al secondo: è l’effetto dell’anidride carbonica. Agisce sui centri respiratori del cervello e accelera la respirazione. Tu hai malato più ossigeno di quel che ti serviva, e ti sei sbronzato. Cos’hai visto, prima che il mondo diventasse tanto strano?»