«Ho visto te,» rispose Jim. «E il cielo. Era come guardare dall’acqua. Ho guardato giù, intorno. Un po’ sotto di me c’era una specie di pavimento di nebbia verde chiara. Non riuscivo a vedere oltre. Là dentro è caldo, e si sta bene, e si sente l’odore di alberi e di fiori. È tutto quello che sono riuscito ad afferrare prima che tornasse la confusione. Oh, sì, questa frana continua a scendere. Forse potremo arrivare sino in fondo… se non moriremo a furia di ridere. Adesso vado a sedermi nel miraggio, dentro fino al collo… mio Dio, Leif, sto gelando!»
Lo guardai, preoccupato. Aveva le labbra bluastre e batteva i denti. La transizione dal caldo al freddo pungente stava facendo il suo effetto, ed era un effetto pericoloso.
«Sta bene,» dissi, alzandomi. «Andrò io per primo. Inspira con lentezza, a lungo, profondamente, con la maggiore calma possibile, ed espira nello stesso modo. Ti ci abituerai presto. Andiamo.»
Mi appesi alla schiena l’unico zaino rimasto, avanzai di traverso come un granchio oltre l’orlo della pietra, sentii sotto i piedi la roccia solida, e scesi dentro al miraggio.
Era abbastanza caldo; quasi come la sala a vapore di un bagno turco. Alzai la testa e vidi il cielo sopra di me, come un cerchio azzurro, nebuloso intorno agli orli. Poi vidi le gambe di Jim che penzolavano verso di me, mentre il suo corpo era inclinato all’indietro in un’angolazione impossibile. Lo vedevo, in pratica, come un pesce vede chi attraversa a guado il suo stagno. Poi il suo corpo si modificò, contraendosi, e lui si acquattò al mio fianco.
«Dio, come si sta bene!»
«Non parlare,» gli dissi. «Siediti qui ed esercitati a respirare lentamente. Guarda me.»
Rimanemmo lì seduti in silenzio per una mezz’ora buona. Nessun suono infrangeva il silenzio che ci avvolgeva. Aveva odore di giungla, di vegetazione lussureggiante che cresceva rapidamente e con la stessa rapidità si putrefaceva: e c’erano fragranze aliene, sfuggenti. Io vedevo soltanto il cerchio di cielo azzurro sopra di me e, circa trenta metri sotto di noi, la nebbia verdechiara di cui mi aveva parlato Jim. Sembrava un pavimento fatto di una nuvola, impenetrabile allo sguardo. La frana vi penetrava e scompariva. Non provavo fastidio né disagio, ma entrambi eravamo madidi di sudore. Osservai soddisfatto che Jim respirava profondamente, senza fretta.
«Hai qualche disturbo?» gli chiesi finalmente.
«Non molti. Ogni tanto devo schiacciare il freno. Ma credo di aver imparato il trucco.»
«Bene,» dissi io. «Fra poco cominceremo a muoverci. Non credo che troveremo di peggio, scendendo.»
«Parli come un esperto. Ad ogni modo, che idea hai di questo posto, Leif?»
«Un’idea piuttosto semplice. Anche se si tratta di una combinazione che non ha neanche una possibilità su un milione di riprodursi altrove. Qui c’è una valle ampia e profonda, interamente cinta da precipizi. In pratica, è una specie di fossa. Le montagne che la circondano sono segnate da ghiacciai e da fiumi di ghiaccio, e nella fossa c’è un flusso costante di aria fredda, anche in estate. Probabilmente, poco al di sotto del fondovalle, c’è un’attività vulcanica: sorgenti bollenti e così via. Può essere una copia in miniatura della Valle dei Diecimila Fumi, più a Ovest. Tutto questo produce l’eccesso di anidride carbonica. Molto probabilmente c’è anche una vegetazione lussureggiante, che ne aumenta la produzione. Stiamo per entrare, probabilmente, in un piccolo frammento superstite del Carbonifero… dieci milioni di anni fuori dal suo tempo. L’aria calda e pesante riempie la fossa fino a incontrare lo strato d’aria fredda da cui siamo appena usciti. Il miraggio si produce quando i due strati s’incontrano, più o meno per le stesse cause per cui si producono tutti i miraggi. Dio solo sa da quanto tempo è così. Certe parti dell’Alaska non hanno mai avuto un’era glaciale… per qualche ragione, il ghiaccio non le ha ricoperte. Quando la zona dove attualmente sorge New York era sotto trecento metri di ghiaccio, gli Yukon Flats erano un’oasi piena di animali e di piante d’ogni genere. Se questa valle esisteva già allora, vedremo di sicuro strani superstiti. Se è relativamente recente, probabilmente ci imbatteremo in qualche adattamento altrettanto interessante. E questo è più o meno tutto, a parte il fatto che deve esserci una via d’uscita da qualche parte, circa a questo livello, altrimenti l’aria calda riempirebbe l’intera valle fino in cima, come fa il gas in un gasometro. Andiamo.»
«Io comincio a sperare che troveremo i fucili,» disse Jim, pensieroso.
«Come hai detto tu stesso, non ci serviranno a niente contro Khalk’ru… chiunque sia, cosa sia, e se c’è,» feci io. «Ma ci sarebbero utili contro i diavoli suoi aiutanti. Prova a vedere se li scorgi… i fucili, voglio dire.»
Ci avviammo lungo la frana, verso il pavimento di sabbia verde. Scendere non era molto difficile. Arrivammo alla nebbia senza aver visto né i fucili né lo zaino. Sembrava una nebbia densa. Vi entrammo, ed effettivamente lo era davvero. Si chiuse intorno a noi, densa e calda. Le rocce odoravano d’umidità ed erano sdrucciolevoli, e noi dovevamo tastare cauti il terreno ad ogni passo. Per due volte pensai che fossimo perduti. Non ero in grado di dire quanto fosse profonda quella nebbia, forse sessanta, novanta metri… era una condensazione creata dalle bizzarre condizioni atmosferiche che producevano il miraggio.
La nebbia cominciò a rischiararsi. Conservò la curiosa colorazione verde, ma io pensavo che fosse dovuta al riflesso proveniente dal basso. Ne uscimmo in un punto dove le pietre precipitate avevano incontrato un ostacolo e si erano ammucchiate formando una barriera alta tre volte più di me. La scalammo.
Vedemmo la valle al di sotto del miraggio.
Era almeno trecento metri sotto di noi. Era invasa da una luce verdechiara come una radura nella foresta. La luce era tenue e vaporosa: chiara nel punto in cui ci trovavamo, ma in lontananza creava cortine nebbiose di pallido smeraldo. A Nord e ai lati, fino a perdita d’occhio, sino a confondersi nelle vaporose cortine di smeraldo, si stendeva un vasto tappeto d’alberi. Il loro respiro saliva pulsando incontro a me, forte come l’odore della giungla, carico di fragranze sconosciute. A destra e a sinistra, i precipizi neri scendevano fino al limitare della foresta.
«Ascolta!» Jim mi afferrò un braccio.
Dapprima soltanto come un battito fievole, ma poi più forte, sempre più forte, udimmo da lontano un rullo di tamburi, dozzine di tamburi, in un bizzarro ritmo staccato… stridulo, irridente, beffardo! Ma non erano i tamburi di Khalk’ru; nel loro suono non vi era il terribile scalpiccio di piedi frettolosi su di un mondo cavo.
Il rullo cessò. Quasi in risposta, e da una direzione diversa, squillò una fanfara di trombe, minacciosa, bellicosa. Se le note potevano imprecare, queste imprecavano.
I tamburi ripresero, ancora irridenti, beffardi, per sfida.
«Tamburi piccoli,» stava bisbigliando Jim. «Tamburi di…»
Si lanciò fuori dalle rocce e io lo seguii.
La barriera conduceva verso Est, e scendeva ripida. La seguimmo. Stava come una grande muraglia tra noi e la valle, nascondendola alla nostra vista. Non sentimmo più i tamburi. Scendemmo almeno per centocinquanta metri, prima che la barriera terminasse. All’estremità c’era un’altra frana, come quella lungo cui erano caduti i fucili e lo zaino.
Ci fermammo a studiarla. Scendeva ad un angolo di circa quarantacinque gradi e, benché non fosse liscia come la precedente, offriva qualche appiglio.
L’aria era diventata ancora più calda. Non era un calore fastidioso: aveva una sua vita fremente, un’esalazione della fitta foresta o della valle stessa, pensai. Mi diede l’impressione di una vita implacabile e lussureggiante, ed un’esaltazione stordente. Lo zaino mi dava fastidio. Se dovevamo scendere quel pendio, e pareva che non ci fosse altro da fare, non avrei potuto portarlo. Me lo tolsi dalle spalle.