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«Lettera di presentazione,» dissi, lasciandolo sdrucciolare giù tra le rocce.

«Respira profondamente e lentamente, povero scemo,» disse Jim, e rise.

Gli brillavano gli occhi. Sembrava felice, come se si fosse liberato dal peso della paura e del dubbio. Doveva sentirsi come mi ero sentito io quando, non molto tempo prima, avevo accettato la sfida dell’ignoto. E m’interrogai, perplesso.

Lo zaino che stava scivolando compì un piccolo balzo, e sparì alla nostra vista. Evidentemente la frana non arrivava sino al fondo della valle: oppure continuava con un’angolazione più ripida, dal punto in cui era scomparso lo zaino.

Mi sporsi, cauto, e cominciai a strisciare lungo la frana, seguito da Jim. Ne avevamo disceso circa tre quarti quando lo sentii gridare. Poi mi urtò, mentre cadeva. Lo afferrai con una mano, ma fui strappato via. Rotolammo giù per il pendio e precipitammo nel vuoto. Sentii un urto squassante, e subito svenni.

VII

IL PICCOLO POPOLO

Rinvenni e mi accorsi che Jim mi stava praticando la respirazione artificiale. Ero disteso su qualcosa di soffice. Mossi impacciato le gambe, e mi levai a sedere. Mi guardai intorno. Eravamo su di una proda muscosa: o meglio, c’eravamo dentro, perché le cime dei muschi erano una trentina di centimetri più in alto della mia testa. Era un muschio straordinariamente sviluppato, pensai, guardandolo istupidito. Non avevo mai visto del muschio più grande di quello. Ero rimpicciolito io, oppure quello era davvero supersviluppato? Sopra di me c’era una trentina di metri di ripida roccia.

«Bene, eccoci qua,» disse Jiim.

«Come ci siamo arrivati?» domandai, stordito. Lui mi indicò il precipizio.

«Siamo caduti da lì. Siamo andati a sbattere contro un cornicione. O meglio, ci sei andato a sbattere tu. Io ti ero addosso. Siamo rimbalzati su questo simpatico materasso di muschio. Io ti ero ancora addosso. Ecco perché da cinque minuti ti sto praticando la respirazione artificiale. Scusami, Leif: ma se fosse stato viceversa, sicuramente avresti dovuto continuare da solo il pellegrinaggio. Io non ho la tua elasticità.»

Risi. Mi alzai e mi guardai intorno. Il muschio gigante su cui eravamo caduti formava una specie di cuscino tra noi e la foresta. Alla base della parete verticale di roccia erano ammucchiati i detriti della frana. Guardai quelle rocce e rabbrividii. Se fossimo andati a finire là, ci saremmo ridotti ad un groviglio di ossa spezzate e di carne maciullata. Mi tastai. Ero tutto intero.

«Va tutto per il meglio, indiano,» dissi, piamente.

«Dio, Leif! Per un po’ mi ero preoccupato.» Si voltò bruscamente. «Guarda la foresta!»

Il cuscino di muschio era un ovale enorme ed alto, orlato fin quasi alla base del precipizio da alberi giganteschi. Erano piuttosto simili alle sequoie della California, e alti altrettanto. Le loro chiome torreggiavano; i tronchi enormi erano colonne scolpite da titani. Ai loro piedi crescevano felci eleganti, alte come palme, e curiose conifere dai tronchi sottili come bambù, dalla corteccia a scaglie rosse e gialle. Dai tronchi e dai rami degli alberi più alti pendevano liane e grappoli di fiori d’ogni forma e colore: c’erano lanterne d’orchidee e candelabri di gigli; strani alberi asimmetrici, che sulle punte dei rami privi di foglie reggevano calici di fiori; dai rami pendevano oscillando campanule, e lunghe liane e ghirlande di piccoli fiori stellati, bianchi e cremisi e in tutti gli azzurri dei mari tropicali: le api vi si immergevano. Intorno a noi sfrecciavano continuamente grandi libellule dalla corazza laccata di verde e di scarlatto. Ombre misteriose vagavano attraverso la foresta: sembravano le ombre delle ali di guardiani invisibili.

Non era una foresta del Carbonifero, almeno non era quale io l’avevo vista ricostruita dalla scienza. Era una foresta incantata. Esalava fragranze da stordire. E sebbene fosse così strana, non aveva nulla di sinistro o di ripugnante. Era bellissima.

Jim disse: «Il bosco degli dèi! In un posto simile può vivere qualunque cosa. Qualunque cosa che sia bella…»

Ah, Tsantawu, fratello mio… se fosse stato vero!

Mi limitai a dire: «Sarà una faticaccia attraversarla.»

«È quel che pensavo anch’io,» rispose lui. «Forse la cosa migliore è costeggiare le rocce. Può darsi che più avanti diventi più facile attraversarla. Da che parte andiamo… a destra o a sinistra?»

Lanciammo in aria una moneta. Il responso fu «a destra». Vidi lo zaino, non molto lontano da noi, e andai a riprenderlo. Il muschio era instabile, come un materasso a molle. Mi domandai come mai fosse lì: pensai che probabilmente alcuni degli alberi giganteschi erano stati abbattuti dalla frana e il muschio si era nutrito della loro putrefazione. Mi appesi lo zaino sulle spalle, e insieme avanzammo verso la parete di roccia, immersi fino alla cintura nella vegetazione spugnosa.

Costeggiammo il precipizio per circa un chilometro e mezzo. Qualche volta la foresta si avvicinava tanto che faticavamo a tenerci vicino alla roccia. Poi cominciò a cambiare. Gli alberi giganteschi si ritirarono. Entrammo in un mare di felci enormi. A parte le api e le libellule laccate, non c’erano segni di vita tra quella vegetazione indisciplinata. Superammo le felci e ci trovammo in un piccolo, stranissimo prato. Era quasi una radura. Tutto intorno c’erano le felci; ad una estremità la foresta formava una palizzata; dall’altra c’era una ripida parete di roccia, nera, costellata di grandi fiori bianchi a forma di coppa, pendenti da corti tralci rossicci, disgustosamente simili a serpenti che, pensai, stavano radicati nei crepacci della roccia.

Nel prato non crescevano alberi né felci. Era coperto da un tappeto d’erba simile a merletto, coronata da minuscoli fiorellini azzurri. Dalla base dalla parete rocciosa si levava un velo sottile di vapore che saliva dolcemente nell’aria, bagnando i fiori bianchi.

Una sorgente calda, decidemmo. Ci avvicinammo per esaminarla.

Udimmo un gemito… disperato, sofferente…

Sembrava il gemito di un bimbo torturato ed infelice, e tuttavia non era né del tutto umano né del tutto animalesco. Era venuto dalla parete di roccia, dietro i veli di vapore. Ci fermammo, in ascolto. Il gemito ricominciò: muoveva alla pietà più profonda, e non cessava. Corremmo verso la parete di roccia. Alla sua base, la cortina fumante era molto densa. L’aggirammo e ne raggiungemmo l’estremità più lontana.

Alla base della parete c’era una polla lunga e stretta, simile ad un ruscelletto chiuso. L’acqua era nera e gorgogliante, e da quelle bolle proveniva il vapore. Nella roccia nera, da una estremità all’altra della polla ribollente, c’era un cornicione largo un metro. E sopra, spaziate ad intervalli regolari, c’erano delle nicchie intagliate nella parete, piccole come culle.

In due di quelle nicchie, per metà dentro e per metà sul cornicione, giacevano quelli che a prima vista mi sembrarono due bambini. Erano distesi sul dorso: le mani ed i piedi minuscoli erano fissati alla pietra da pioli di bronzo. I capelli scendevano loro lungo i fianchi; i loro corpi erano nudi.

Poi vidi che non erano bambini. Erano adulti: un omino e una donnina. La donna aveva girato la testa e stava fissando l’altro pigmeo. Era lei che gemeva. Non ci vide: il suo sguardo era intento sul minuscolo uomo. Questi giaceva rigido, ad occhi chiusi. Sul petto, proprio sopra il cuore, c’era una corrosione nera, come se vi fosse sgocciolato dell’acido.

Vi fu un movimento, sulla parete di roccia sopra di lui. C’era uno dei fiori bianchi a forma di coppa. Possibile che fosse stato quello a muoversi? Pendeva ad una trentina di centimetri dal petto dell’omettino, e sui pistilli scarlatti si stava lentamente raccogliendo una goccia di quello che, pensai, doveva essere nettare.