Era stato veramente il movimento del fiore ad attirare il mio sguardo! Mentre lo guardavo, la liana rossastra tremò. Fremette, protendendosi come un verme pigro sulla roccia per un paio di centimetri. Il fiore scrollò il calice, come una bocca, per staccare la goccia che si era formata. E la bocca del fiore era proprio sopra il cuore dell’omino, sopra la corrosione nera sul suo petto.
Salii sullo stretto cornicione, tesi le mani, afferrai la liana e la strappai. Si divincolò nella mano come un serpente. Le radici si abbarbicarono alle mie dita, e come la testa d’un serpe il fiore si alzò, per avventarsi. La goccia del nettare mi cadde sulla mano: un dolore tormentoso e bruciante mi azzannò, risalendo il mio braccio come una fiamma. Scagliai nella polla bollente quella cosa che si agitava.
Proprio al di sopra della donnina c’era un’altra liana strisciante. La strappai, come avevo fatto con l’altra. Anche quella cercò di colpirmi con la testa di fiore, ma mi mancò, oppure non c’era quel terribile nettare nel suo calice. La gettai nella polla ribollente.
Mi chinai sull’omino. Aveva gli occhi aperti e mi fissava. Come la sua pelle, anche gli occhi erano gialli: e obliqui, mongolici. Sembrava non avessero pupille, e non erano del tutto umani, come non lo era stato il gemito della sua donna. Erano carichi di sofferenza e d’odio furioso. Poi il suo sguardo si posò sui miei capelli, e vidi lo sbalordimento scacciare l’odio.
Il tormento bruciante della mano e del braccio era quasi insopportabile. Capii quanto doveva soffrire il pigmeo. Strappai i pioli che lo tenevano fermo. Lo sollevai e lo passai a Jim. Non pesava più di un bimbo molto piccolo.
Strappai i pioli dalla lastra su cui giaceva la minuscola donna. Non c’era né paura né odio nei suoi occhi: erano colmi di stupore e d’inequivocabile gratitudine. La presi in braccio e la deposi accanto al suo uomo.
Guardai di nuovo la parete di roccia nera. Era tutta in movimento: le liane rossastre fremevano, i fiori bianchi oscillavano, alzando ed abbassando i calici.
Era decisamente orribile…
L’omettino giaceva quieto: i suoi occhi gialli andavano da me a Jim e poi di nuovo a me. La donna parlò, a sillabe trillanti, da uccellino. Si lanciò di corsa attraverso il prato e si addentrò nella foresta.
Jim stava guardando il pigmeo dorato, come se sognasse. Lo sentii mormorare:
«Gli Yunwi Tsundsi! Il Piccolo Popolo! Allora era tutto vero! Tutto vero!»
La donnina uscì correndo dal folto delle felci. Aveva le mani piene di grosse foglie fortemente venate. Mi lanciò uno sguardo, quasi per scusarsi. Si piegò sul suo uomo. Gli strizzò sopra il petto alcune di quelle foglie. Una linfa lattiginosa le scese di tra le dita e sgocciolò sulla corrosione nera, si sparse come una pellicola. L’omino s’irrigidì e gemette, si rilassò e rimase immobile.
La donnina mi prese la mano. Nel punto toccato dal nettare, la pelle era diventata nera. Lei spremette la linfa delle foglie. Una fitta al cui confronto tutto il tormento che avevo provato prima non era nulla mi corse per la mano e per il braccio. Poi, quasi immediatamente, non sentii più alcun dolore.
Guardai il petto dell’omettino. La corrosione nera era scomparsa. C’era una ferita, come quella di una bruciatura da acido, rossa e normale. Mi guardai la mano. Era infiammata, ma la macchia nera era sparita.
La donnina s’inchinò davanti a me. L’ometto si alzò. Guardò i miei occhi, mi squadrò dalla testa ai piedi. Vidi crescere in lui il sospetto, e ricomparire l’odio rabbioso. Parlò alla sua donna. Lei replicò piuttosto a lungo, indicando la parete di roccia, la mia mano infiammata, poi le caviglie ed i polsi suoi e dell’uomo. Allora l’omettino mi fece un cenno; a gesti mi pregò di piegarmi verso di lui. Lo accontentai, e lui mi toccò i capelli, vi passò in mezzo le dita minuscole. Mi posò la mano sul cuore… poi vi appoggiò la testa, per ascoltarne il battito.
Mi colpì sulla bocca con la manina; ma non era una percossa. Capii che era una carezza.
L’omettino mi sorrise e trillò. Non riuscii a capire, e scossi il capo. Allora alzò lo sguardo verso Jim e trillò un’altra domanda. Jim provò a parlargli in Cherokee. Questa volta fu l’omino a scuotere la testa. Parlò di nuovo alla sua donna. Fra i trilli, compresi chiaramente la parola e-vah-li. Lei annuì.
Facendoci cenno di seguirli, i due corsero attraverso il prato, verso le felci. Erano piccolissimi… mi arrivavano appena alle cosce. Erano modellati in modo perfetto. I lunghi capelli erano castani, finissimi e serici, e sventolavano dietro di loro, come ragnatele.
Correvano come cerbiatti, e faticammo a tenere il loro ritmo. Entrarono nel folto di felci al quale eravamo diretti; e rallentarono il passo. Procedemmo tra le felci gigantesche. Non c’erano piste, ma i pigmei dorati conoscevano la strada.
Uscimmo dalle felci. Davanti a noi si stendeva un terreno erboso, coperto di fiorellini che formavano un tappeto azzurro fin sulle sponde di un ampio fiume, un fiume strano, un fiume bianco come il latte, sulla cui placida superficie aleggiavano spirali di vapori opalescenti. Attraverso quelle spirali intravvidi squarci di pianure verdi e piatte, sull’altra riva del fiume bianco, e di scarpate verdi.
L’omettino si fermò. Accostò l’orecchio al suolo. Tornò a balzare tra le felci, facendoci segno di seguirlo. Pochi minuti dopo arrivammo ad una torre di guardia semidiroccata. L’entrata era spalancata. I pigmei vi entrarono, chiamandoci a gesti.
All’interno della torre c’era una scala di pietra sgretolata che portava in cima. I due pigmei vi salirono, quasi a passo di danza, e noi li seguimmo. In cima alla torre c’era una cameretta, illuminata dalla luce verde che filtrava tra le connessure delle pietre. Occhieggiai da una di quelle fenditure, guardai l’azzurro terreno erboso ed il fiume bianco. Udii il leggero trapestio di zoccoli di cavalli ed un canto sommesso di voci femminili. E si facevano sempre più vicini.
Una donna avanzò a cavallo nel prato azzurro. Montava una grande giumenta nera. Portava, come copricapo, la testa di un lupo bianco: la pelle le copriva le spalle e il dorso. Su quel manto argenteo, i suoi capelli spiccavano in due trecce rossofiammanti. Sotto ai seni nudi, alti e rotondi, le zampe del lupo bianco erano annodate come una cintura. La donna aveva occhi azzurri come fiordalisi, distanti sotto la fronte bassa e larga. La pelle era di un candore latteo, sfumato di rosa. La bocca aveva labbra turgide, cremisi, amorose e insieme crudeli.
Era una donna forte, alta quasi come me. Sembrava una Valchiria, e come le messaggere di Odino portava sulla sella, davanti a sé, tenendolo con un braccio, un corpo. Ma non era l’anima di un guerriero caduto raccolta per portarla al Valhalla. Era una ragazza. Una ragazza le cui braccia erano legate contro i fianchi da cinghie robuste; teneva il capo reclinato disperatamente sul petto. Non riuscii a scorgere il suo viso: era nascosto dal velo dei suoi capelli. Ma quei capelli erano rosso-ruggine, e la sua pelle era chiara quanto quella della donna che la teneva ferma.
Sopra la testa della Donna-lupo volava un falcone candido come la neve, che scendeva in picchiata, volteggiava in cerchio e procedeva con la sua stessa velocità.
Dietro di lei cavalcava una mezza dozzina di donne, giovani e forti, dalla pelle rosea e dagli occhi azzurri, dai capelli rosso-rame, rosso-ruggine, rosso-bronzo annodati intorno alla testa o pendenti sulle spalle in lunghe trecce. Erano a torso nudo, indossavano gonne e stivaletti. Reggevano lance lunghe e sottili e piccoli scudi rotondi. Anch’esse sembravano Valchirie: ognuna di loro pareva una scudiera degli Asi. E mentre cavalcavano cantavano, sottovoce, sommessamente, uno strano canto.
La Donna-lupo e la sua prigioniera passarono oltre una curva del prato e scomparvero. Le donne che cantavano le seguirono e sparirono anch’esse.