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Le ali del falcone bianco balenavano argentee mentre volteggiava e scendeva in picchiata, volteggiava e scendeva in picchiata. Poi anche il falcone scomparve.

VIII

EVALIE

I pigmei dorati sibilarono; i loro occhi gialli ardevano d’odio.

L’omettino mi toccò la mano, parlando a brevi sillabe trillanti, e indicandomi il fiume bianco. Era chiaro: voleva farmi capire che dovevamo attraversarlo. Si arrestò, in ascolto. La donnina scese correndo le scale sgretolate. L’omino cinguettò irritato, sfrecciò verso Jim, gli batte i pugni sulle gambe come per scuoterlo, poi si lanciò all’inseguimento della donna.

«Svegliati, indiano!» dissi io, impaziente. «Vogliono che ci sbrighiamo.»

Jim scosse il capo, come se cercasse di liberarsi delle ultime ragnatele di un sogno.

Scendemmo alla svelta i gradini sbrecciati. L’omettino ci stava aspettando: o almeno non era corso via perché, se davvero ci aspettava, lo stava facendo in un modo estremamente singolare. Stava danzando in uno stretto cerchio, agitando in modo strano le braccia e le mani, e trillava una bizzarra melodia su quattro note, ripetute incessantemente in progressioni diverse. La donna, invece, non si vedeva.

Un lupo ululò. Gli risposero altri lupi, più lontani nella foresta in fiore… come un branco in caccia, il cui capo avesse fiutato la preda.

La donnina uscì correndo dalle felci; l’omettino smise di danzare. Lei aveva le mani piene di piccoli frutti purpurei che sembravano uva selvatica. L’ometto indicò il fiume bianco, ed entrambi si avviarono, addentrandosi tra le felci. Li seguimmo. Uscimmo dalla vegetazione, e dopo aver attraversato il prato azzurro ci fermammo sulla riva del fiume.

L’ululato del lupo risuonò nuovamente, e gli altri gli risposero, più vicino.

L’omettino mi balzò addosso, cinguettando frenetico: mi strinse la vita con le gambe e si sforzò di strapparmi di dosso la camicia. La donna stava trillando qualcosa a Jim, agitando con le mani i piccoli frutti purpurei.

«Vogliono che ci spogliamo,» disse Jim. «E vogliono che ci sbrighiamo a farlo.»

Ci spogliammo, in fretta. C’era un crepaccio, nella proda, e vi spinsi dentro lo zaino. Ci affrettammo ad arrotolare gli abiti e gli stivali, li legammo con una cinghia, e ce li appendemmo sulle spalle.

La donnina gettò al suo compagno una manciata di quei frutti porporini. Accennò a Jim di chinarsi, e quando egli obbedì gli strizzò le bacche sulla testa e sulle mani, sul petto, sulle cosce e sui piedi. L’omino fece lo stesso con me. I frutti avevano un odore stranamente pungente che mi fece lacrimare gli occhi.

Mi rialzai e guardai lontano, al di là del fiume bianco.

La testa di un serpente emerse dalla superficie lattea: e poi un’altra ed un’altra ancora. Erano teste grandi quanto quella di un’anaconda, ed erano rivestite di scaglie di smeraldo vivido. Avevano creste di spine verde brillante che proseguivano lungo il dorso, rivelandosi quando si attorcevano e turbinavano nell’acqua bianca. Decisamente, non mi andava l’idea d’immergermi in quell’acqua; ma adesso ero convinto di conoscere lo scopo di quella specie di unzione, ed ero certo che i pigmei dorati non avevano intenzione di farci del male. E altrettanto certamente, supposi, sapevano ciò che facevano.

L’ululato dei lupi giunse ancora una volta, non solo molto più vicino, ma dalla direzione in cui si era avviato il drappello delle Valchirie.

L’omettino si tuffò in acqua, accennandomi a gesti di seguirlo. Obbedii, e subito udii lo scroscio lieve del tuffo della donna, quello più sonoro di Jim. L’omettino si voltò a sbirciarmi, annuì, e cominciò a nuotare come un’anguilla, ad una velocità che mi risultò difficile emulare.

I serpenti crestati non ci molestarono. Una volta avvertii il guizzo delle scaglie contro l’inguine; una volta mi scrollai l’acqua dagli occhi e mi accorsi che uno dei rettili nuotava accanto a me, eguagliando giocosamente la mia velocità, o almeno così pareva: stava gareggiando con me.

L’acqua era tiepida, tiepida come il latte cui somigliava, e teneva bene a galla, stranamente. In quel punto, il fiume aveva un’ampiezza di circa trecento metri. Avevo coperto circa metà della distanza quando udii uno stridio acuto e sentii uno sbatter d’ali attorno alla mia testa. Mi girai, agitando le mani per scacciare ciò che mi aveva aggredito, qualunque cosa fosse.

Era il falcone bianco della Donna-lupo, che volteggiava, scendeva in picchiata, risaliva, mi si avventava contro con le ali distese.

Udii un grido provenire dalla riva, una voce di contralto che squillava come una campana, vibrante, imperiosa… in uiguro arcaico.

«Torna indietro! Torna indietro, Capelli Gialli!»

Girai su me stesso per guardare. Il falcone smise di avventarsi contro di me. Sull’altra riva c’era la Donna-lupo sulla grande giumenta nera, che stringeva con il braccio la ragazza prigioniera. Gli occhi della Donna-lupo sembravano due stelle di zaffiro, e la sua mano libera era levata in un gesto di richiamo.

Tutto intorno a lei, con le teste levate, fissandomi con occhi che erano verdi quanto i suoi erano azzurri, c’era un branco di lupi candidi come la neve!

«Torna indietro!» gridò di nuovo lei.

Era bellissima… la Donna-lupo. Non sarebbe stato difficile obbedire. Ma no… lei non era una Donna-lupo! Che cos’era? Nella mia mente si affacciò una parola uigura, una parola antica che non sapevo di conoscere. Era la Salur’da: l’Incantatrice. E con quel ricordo venne un rabbioso risentimento per i suoi richiami. Chi era lei, la Salur’da, per comandarmi? Io, Dwavanu, che negli antichi tempi da tanto dimenticati l’avrei fatta frustare con gli scorpioni per quell’insolenza!

Mi sollevai per quanto potevo dall’acqua bianca.

«Torna nella tua tana, Salur’da!» gridai. «Dwayanu accorre forse al tuo richiamo? Quando sarò io a chiamare te, allora affrettati ad obbedire!»

Ella mi fissò, con lo sbalordimento negli occhi. Il braccio robusto che tratteneva la ragazza si rilassò, così che per poco la prigioniera non cadde dall’alto pomo della sella. Ripresi a nuotare verso l’altra sponda.

Sentii fischiare l’Incantatrice. Il falcone che volteggiava attorno alla mia testa lanciò uno strido e s’involò. Sentii ringhiare i lupi bianchi; sentii i tonfi degli zoccoli della giumenta nera che correva sul prato azzurro. Raggiunsi la riva e m’inerpicai. Mi volsi soltanto allora. L’Incantatrice, il falcone e i lupi bianchi… erano scomparsi tutti.

Nella mia scia i serpenti dalle teste di smeraldo, dalle creste verdi, nuotavano, turbinavano, si tuffavano.

I pigmei dorati si erano arrampicati sul greto.

Jim domandò: «Che cosa le hai detto?»

«L’Incantatrice accorre al mio richiamo, non io al suo,» risposi; e nello stesso istante mi chiesi che cosa mi aveva spinto a pronunciare quelle parole.

«Ancora molto… Dwayanu, no, Leif? Che cosa ha fatto scattare la molla, questa volta?»

«Non so.» L’inesplicabile risentimento verso la donna era ancora forte; e poiché non riuscivo a comprenderlo, era anche irritante. «Mi ha ordinato di ritornare indietro, ed è stata come un’esplosione nel mio cervello. Allora io… mi è sembrato di conoscerla per ciò che è, di capire che il suo comando era pura insolenza. Gliel’ho detto. Lei non è rimasta più sorpresa di me da ciò che le ho detto. Era come se fosse qualcun altro a parlare. Era come…» Esitai. «Ecco… era come quando incominciai quel maledetto rituale e non riuscii a fermarmi.»

Jim piegò il capo e poi cominciò a rimettersi gli abiti. Lo imitai. Erano bagnati fradici. I pigmei ci guardavano, con scoperto divertimento. Notai che il rossore infiammato attorno alla ferita sul petto dell’omettino si era schiarito: la ferita era aperta, ma non era profonda e già stava incominciando a cicatrizzarsi. Mi guardai la mano: il rossore era quasi scomparso, e solo una certa sensibilità indicava il punto in cui il nettare l’aveva toccata.