Quando ci fummo allacciati gli stivali, i pigmei dorati si avviarono al trotto, allontanandosi dal fiume in direzione di una fila di rocce perpendicolari, circa un chilometro più avanti. La verde luce vaporosa quasi le celava, come aveva celato interamente il panorama a Nord, quando avevamo guardato la valle per la prima volta. Per circa metà della distanza il suolo era pianeggiante e coperto dall’erba azzurrofiorita. Poi incominciavano le felci che diventavano via via più alte. Arrivammo ad un sentiero, poco più largo di una pista aperta dai cervi, che si addentrava in un macchione di felci molto più grande. Svoltammo su quel sentiero.
Non avevamo messo nello stomaco nulla fin dal primo mattino, ed io pensai con rimpianto allo zaino che avevo abbandonato. Tuttavia, sono abituato a mangiare di buon appetito quando posso, ed a farne filosoficamente a meno quando devo. Perciò mi strinsi la cintura e mi voltai a sbirciare Jim che mi stava alle calcagna.
«Hai fame?» chiesi.
«No. Sono troppo occupato a pensare.»
«Indiano… che cosa ha fatto tornare sui suoi passi quella bella rossa?»
«I lupi. Non li hai sentiti ululare per chiamarla? Ci hanno rintracciati e le hanno dato il segnale.»
«Lo pensavo anch’io… ma è incredibile! Diavolo… Allora è una Incantatrice.»
«Non per questo motivo. Hai dimenticato Mowgli ed i Compagni Grigi. Non è difficile addestrare i lupi. Comunque, quella è davvero una Incantatrice. Non sforzarti di reprimere Dwayanu quando hai a che fare con quella, Leif.»
I piccoli tamburi ricominciarono di nuovo a rullare. All’inizio erano pochi, ma poi il loro numero aumentò, sino a quando furono intere dozzine. Questa volta le cadenze erano melodiose, gaie, e suonavano un ritmo di danza che toglieva ogni stanchezza. Non sembravano molto lontani. Ma le felci erano alte sopra le nostre teste ed impenetrabili allo sguardo, e lo stretto sentiero si snodava tortuoso come un fiume serpeggiante.
I pigmei affrettarono l’andatura. All’improvviso la pista uscì dalle felci, e la coppia si fermò. Davanti a noi il terreno saliva piuttosto ripido per cento, centoventi metri. Il pendio, eccettuato lo spazio del sentiero, era coperto da cima a fondo da un groviglio di folti rampicanti verdi costellati interamente da minacciose spine lunghe tre dita: una barriera viva di cavalli di Frisia che nessuna creatura avrebbe osato penetrare. In fondo al sentiero stava una massiccia torre di pietra: e da questa veniva un luccichio di punte di lancia.
Nella torre un tamburo dalla voce stridula gridò un inequivocabile segnale d’allarme. Subito i tamburi dal suono melodioso si azzittirono. Lo stesso grido stridente fu ripreso e ripetuto da un punto all’altro, diminuendo in distanza; e allora mi accorsi che il pendio era come un’immensa fortificazione circolare, che s’incurvava lontano verso l’ininterrotta palizzata delle felci giganti, e sulla nostra destra arretrava verso la nera parete perpendicolare di roccia. Era interamente coperto da quel groviglio di spine.
L’ometto cinguettò qualcosa alla sua donna, e s’incamminò per il sentiero, verso la torre. Ne uscirono correndo altri pigmei che gli si fecero incontro. La donnina rimase con noi, annuendo e sorridendo e battendoci le mani sulle ginocchia per tranquillizzarci.
Un altro tamburo, o meglio un trio di tamburi, incominciò ad echeggiare dalla torre. Pensai che fossero tre perché il loro suono era su tre note diverse, tenere, carezzevoli, eppure capaci di giungere lontano. Cantavano una parola, un nome, quei tamburi, nitidamente come se avessero avuto labbra: il nome che avevo udito nei trilli dei pigmei.
E-vah-li… E-vah-li… E-vah-li… Ancora, ancora, ancora. I tamburi delle altre torri tacevano.
L’ometto ci chiamò a sé con la mano. Avanzammo, evitando a fatica le spine. Giungemmo al termine del sentiero, accanto alla piccola torre. Una dozzina di ometti ne uscirono e ci sbarrarono la strada. Nessuno era più alto di quello che avevo salvato dai fiori bianchi. Avevano tutti la pelle dorata, gli occhi gialli semianimaleschi; i capelli erano lunghi e serici, e arrivavano sin quasi ai loro minuscoli piedi. Indossavano perizomi intrecciati di una fibra che sembrava cotone: alla vita portavano alte cinture d’argento, traforate come pizzi a motivi intricati. Le loro lance erano armi pericolose, nonostante l’apparente fragilità: avevano lunghe aste di legno nero, e punte di metallo rosso lunghe trenta centimetri, piene dalla base alla cima di punte uncinate. Appesi alle spalle i pigmei portavano archi neri, con lunghe frecce egualmente uncinate; e nelle cinture metalliche tenevano infilati coltelli falcati dello stesso metallo rosso, simili a scimitarre da gnomi.
Si fermarono a guardarci, come bambini. Mi sentii come doveva essersi sentito Gulliver tra i lillipuziani. Non avevo nessuna intenzione di provocarli ad usare le loro armi. Guardavano Jim con curiosità ed interesse, senza la minima sfumatura di ostilità. Quando guardavano me, le loro faccette diventavano dure e feroci. Solo quando i loro sguardi vagavano sui miei capelli biondi vidi che lo stupore ed il dubbio alleviavano il sospetto: ma non abbassarono mai le punte delle lance rivolte verso di me.
E-vah-li… E-vah-li… E-vah-li… cantavano i tamburi.
Da lontano giunse un rullo di risposta, e allora i tamburi tacquero.
Udii una voce dolce e sommessa che, dall’altra parte della torre, trillava le sillabe da uccellino del Piccolo Popolo…
E poi… vidi Evalie.
Avete mai visto un ramo di salice ondeggiare in primavera sopra una chiara polla silvana, o un’esile betulla danzare nel vento in un bosco segreto, o le fuggevoli ombre verdi in una radura d’una fitta foresta, che sono Driadi quasi tentate di rivelarsi? Fu a questo che pensai, quando venne verso di noi.
Era bruna e alta. Aveva occhi bruni sotto le lunghe ciglia nere: il bruno trasparente di un ruscello montano in autunno; i capelli erano neri, di quel nero di giaietto che in una certa luce assume la lucentezza del blu più cupo. Il suo visetto era minuto, i lineamenti certamente non erano classici né regolari: le sopracciglia quasi si univano in due linee rette sopra il naso piccolo e diritto; la bocca era grande ma sensibile e disegnata finemente. Sulla fronte ampia e bassa i capelli nerazzurri erano intrecciati come una corona. La pelle era ambra chiara. Come splendida ambra pulita splendeva sotto la veste sciolta eppure aderente che l’avvolgeva, lunga fino al ginocchio, argentea, fine come una ragnatela e trasparente. Attorno alle anche portava il bianco perizoma del Piccolo Popolo. A differenza dei pigmei, calzava un paio di sandali.
Ma era la sua grazia che ti mozzava il respiro in gola quando la guardavi, la lunga linea fluente dalla caviglia alla spalla, delicata e mobile come la curva dell’acqua che scorre sopra un masso liscio, una grazia liquida che mutava ad ogni movimento.
Questo… e la vita che ardeva in lei come la fiamma verde della foresta vergine quando ai baci della primavera seguono le carezze più ardenti dell’estate. Ora comprendevo perché gli antichi greci avevano creduto alle Driadi, alle Naiadi, alle Nereidi… le anime femminili degli alberi, dei ruscelli e delle cascate e delle fonti, e delle onde.
Non riuscii a capire quanti anni avesse… la sua era quella bellezza pagana che non ha età.
Scrutò me, i miei abiti ed i miei stivali, con manifesta perplessità; sogguardò Jim, annuì, come per dire che in lui non vi era nulla di preoccupante; poi si rivolse di nuovo a me, studiandomi. I minuscoli soldatini la circondarono, con le lance levate.
L’omettino e la sua compagna si erano fatti avanti. Parlavano tutti e due nello stesso tempo, indicando il petto di lui, la mia mano, i miei capelli gialli. La fanciulla rise, attirò a sé la donnina e le coprì le labbra con una mano. L’ometto continuò a trillare e a cinguettare.