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Jim aveva ascoltato con intensità perplessa, ogni volta che era stata la fanciulla a parlare. Mi afferrò per un braccio.

«Stanno parlando Cherokee! O qualcosa di molto simile… Ascolta… Hanno detto una parola… suonava come Yun’wini’giski… vuol dire ‘antropofagi’. Alla lettera: ‘loro mangiano gente’… se era questo che ho sentito… e guarda… lui sta mostrando come le liane strisciavano già dalla roccia…»

La fanciulla riprese a parlare. Ascoltai, assorto. L’enunciazione affrettata ed i trilli rendevano difficile capire: ma captai suoni che sembravano familiari… e poi udii una combinazione che conoscevo con certezza.

«È una specie di lingua mongolica, Jim. Ho appena afferrato una parola che significa ‘serpente d’acqua’ in una dozzina di dialetti diversi.»

«Lo so… lei ha chiamato il serpente aha’nada, ed i Cherokee dicono inadu… ma è indiano, non mongolo.»

«Può essere l’uno e l’altro. I dialetti indiani sono mongolici. Forse è l’antica madrelingua. Se almeno riuscissimo a farla parlare più adagio, ed a smorzare i trilli.»

«Può darsi. I Cherokee si definiscono ‘il popolo più vecchio’, e chiamano la loro lingua ‘la prima parola’… Aspetta…»

Avanzò, a mani levate; pronunciò la parola che in Cherokee significa indifferentemente «amico», oppure «uno che viene con buone intenzioni». Stupore e comprensione balenarono negli occhi della fanciulla. La ripeté come l’aveva pronunciata Jim, poi si rivolse ai pigmei, comunicandola a loro… e questa volta riuscii a distinguerla chiaramente fra i trilli e i pigolii. I pigmei si fecero più vicini, fissando Jim.

Lui dissi, lentamente: «Noi veniamo dall’esterno. Non sappiamo nulla di questo posto. Non vi conosciamo nessuno.»

Dovette ripeterlo parecchie volte, prima che la fanciulla l’afferrasse. Guardò lui con aria grave e me con fare dubbioso… eppure, come se desiderasse credere. Rispose, esitante.

«Ma Sri…» E indicò l’omettino. «Sri ha detto che nell’acqua lui ha parlato la lingua del male.»

«Lui parla molte lingue,» disse Jim: poi si rivolse a me. «Parlale. Non stare lì come un pupazzo ad ammirarla. Questa ragazza è capace di pensare… e noi siamo in un pasticcio. Il tuo aspetto non ha fatto una buona impressione sui nanetti, Leif, nonostante la tua buona azione.»

«Il fatto che abbia parlato quella lingua è più strano che io ora parli la tua, Evalie?» dissi. Poi ripetei la stessa domanda in due dei più antichi dialetti mongoli che conoscevo. Lei mi squadrò, pensosa.

«No,» disse finalmente. «No: perché anch’io la conosco un po’, e questo non mi rende malvagia.»

All’improvviso sorrise, e trillò un ordine alle guardie. Quelle abbassarono le lance, guardandomi quasi con l’interesse amichevole che avevano riservato a Jim. Dentro la torre, i tamburi cominciarono a battere un rullo allegro. Come se fosse stato un segnale, gli altri tamburi invisibili azzittiti dallo stridente allarme ripresero il loro ritmo melodioso.

La fanciulla ci rivolse un cenno. La seguimmo, circondati dai minuscoli soldatini, tra una cortina di spine e la torre.

Varcammo la soglia della Terra del Piccolo Popolo e di Evalie.

IL LIBRO DI EVALIE

IX

GLI ABITATORI DEL MIRAGGIO

La luce smeraldina che pervadeva la Terra Oscurata si stava offuscando, come la verde foresta si abbuia al crepuscolo. Il Sole doveva essere ormai calato da un pezzo dietro i picchi che cingevano l’illusorio fondovalle… il cielo della Terra Oscurata. Ma lì la luminosità sbiadiva lentamente, come se non dipendesse interamente dal Sole, come se quel luogo possedesse una luce propria.

Sedemmo accanto alla tenda di Evalie. Era montata su di un’altura bassa, non molto lontano dall’entrata della sua grotta, nella parete del precipizio. Lungo la base della parete vi erano le grotte del Piccolo Popolo, aperture minuscole attraverso le quali nessuno più grande di loro poteva insinuarsi nelle caverne che erano le loro case, i loro laboratori, le loro officine, i magazzini ed i granai, le fortezze inespugnabili.

Erano trascorse ore da quando l’avevamo seguita sulla piana, fra la torre di guardia e la sua tenda. I pigmei dorati brulicavano tutto intorno a noi, curiosi come bambini, cinguettando e trillando, interrogando Evalie, riferendo le sue risposte ai loro compagni più lontani. Anche ora erano parecchi, disposti in cerchio intorno alla base dell’altura: dozzine di ometti e di donnine che ci fissavano con gli occhi gialli e cinguettavano e ridevano. Le donne avevano tra le braccia neonati piccoli come bambolette, e come grosse bambole erano i loro figli più grandi raggruppati intorno alle loro ginocchia.

La loro curiosità si placò presto, come appunto quella dei bimbi: e tornarono alle loro occupazioni ed ai loro giochi. Altri prendevano i loro posti, con curiosità ancora insoddisfatta.

Li guardavamo danzare sull’erba liscia. Danzavano in cerchio, al ritmo melodioso dei loro tamburi. Vi erano altri monticelli sulla piana, più grandi o più piccoli di quello su cui stavamo, e tutti erano egualmente arrotondati e simmetrici. Intorno a quelle alture e su di esse i pigmei dorati ballavano al ritmo pulsante dei piccoli tamburi.

Ci avevano portato minuscole pagnotte, latte e formaggi stranamente dolci ma gradevoli, e frutti e meloni sconosciuti ma deliziosi. Mi vergognavo del numero di piatti che avevo ripulito. Quelli del Piccolo Popolo avevano osservato e riso, e incitato le donne a portarmi altro cibo.

Jim disse, scherzando: «Stai mangiando il cibo degli Yunwi Tsundsi. Cibo fatato, Leif! Non potrai mangiare mai più il cibo dei mortali.»

Guardai Evalie, la sua bellezza di vino e d’ambra. Bene, non stentavo a credere che Evalie fosse stata nutrita di cibo non mortale.

Studiai la piana per la centesima volta. Il pendio su cui sorgevano le torri massicce era un immenso semicerchio: le estremità degli archi toccavano le nere pareti perpendicolari di roccia. Calcolai che racchiudesse all’incirca un territorio di trenta chilometri quadrati. Oltre i tralci spinosi c’erano i macchioni di felci giganti; oltre ancora, dall’altra parte del fiume scorgevo i grandi alberi. Se c’erano foreste da questa parte, non potevo vederle. E non sapevo quali altri esseri viventi vi fossero. C’era qualcosa da cui ci si doveva proteggere, sicuramente, altrimenti quale scopo potevano avere le fortificazioni, le difese?

Qualunque cosa fosse, quella terra dei pigmei dorati era un piccolo paradiso, con i suoi campi di grano, i frutteti, le viti e le bacche ed i prati verdi.

Ripensai a ciò che Evalie ci aveva detto di lei, rallentando meticolosamente le sillabe trillanti del Piccolo Popolo in vocaboli comprensibili per noi. Parlava una lingua antica, le cui radici affondavano nel Tempo assai più profondamente di tutte le altre a me note, eccettuato forse l’uiguro arcaico. Di minuto in minuto, mi accorsi che la padroneggiavo con crescente facilità, ma non rapidamente quanto Jim. Lui aveva addirittura provato qualche trillo, con grande letizia dei pigmei. E soprattutto lo avevano capito. Ora potevamo seguire il pensiero di Evalie molto meglio di quanto lei potesse fare con noi.

Da dove era venuto il Piccolo Popolo della Terra Oscurata? E dove aveva appreso quella lingua antica? Me lo chiesi, e mi risposi che tanto valeva chiedere come mai i sumeri, la cui capitale era chiamata dalla Bibbia «Ur dei Caldei» avessero parlato una lingua mongolica. Anch’essi erano stati una razza di nani, maestri di strane stregonerie e studiosi delle stelle. E nessuno sa da dove vennero nella Mesopotamia, portando con sé la loro scienza già in piena fioritura. L’Asia è l’Antica Madre, e nessuno può dire quante razze abbia generato e visto diventare polvere.