Non conoscevo la lingua uigura, e li salutai educatamente in kirghiso. Non risposero e continuarono a esaminarmi attenti. Poi parlarono fra loro, annuendo come se avessero preso una decisione concorde. Allora il capo mi rivolse la parola. Quando mi alzai, mi accorsi che era di poco più basso del mio uno e novantatre. Gli ripetei, sempre in kirghiso, che non conoscevo la sua lingua. Quello diede un ordine ai suoi uomini, che circondarono la mia tenda come sentinelle, con le lance al fianco, e le terribili, lunghe spade sguainate.
Cominciai ad innervosirmi, ma prima che avessi tempo di protestare il capo cominciò a parlarmi in kirghiso. Mi assicurò, in tono deferente, che la loro era una visita pacifica: ma non volevano che i miei compagni disturbassero la conversazione. Mi pregò di mostrargli le mani. Le tesi. Lui ed i suoi due compagni si piegarono sulle mie palme, le esaminarono meticolosamente, indicando segni e incroci di linee. Terminata l’ispezione, il capo si portò la mia destra alla fronte.
Poi, con mio grande sbalordimento, si lanciò senza spiegazioni in una intelligente lezione di lingua uigura. Scelse il kirghiso come lingua comparativa. Non parve sorpreso della facilità con cui assimilai l’insegnamento: anzi, avevo l’inquietante sensazione che se l’aspettasse. I suoi modi, voglio dire, non erano quelli di un uomo che m’insegnava una lingua nuova, quanto di chi mi ricordasse una lingua dimenticata. La lezione durò un’ora buona. Poi si portò di nuovo la mia mano alla fronte, e diede un ordine alle sentinelle. Tutti insieme tornarono ai loro cavalli e ripartirono al galoppo.
Quell’esperienza era stata piuttosto inquietante. E lo era soprattutto la vaga sensazione che il mio insegnante, se avevo interpretato esattamente i suoi modi, aveva avuto ragione: non avevo imparato una lingua nuova, bensì una dimenticata. Certo, non avevo mai appreso un linguaggio con la rapidità e la facilità con cui avevo imparato l’uiguro.
Gli altri membri della spedizione erano rimasti perplessi e preoccupati, naturalmente. Andai subito da loro, e discussi la cosa. Il nostro etnologo era il famoso professor David Barr, di Oxford. Fairchild era propenso a ritenerlo uno scherzo, ma Barr era molto turbato. Disse che secondo la tradizione degli uiguri, i loro antenati avevano la carnagione chiara, i capelli gialli e gli occhi azzurri, ed erano fortissimi. Insomma, erano uomini come me. Erano stati ritrovati alcuni antichi affreschi uiguri che ritraevano esattamente uomini di quel tipo, perciò c’era la prova della fondatezza della tradizione. Tuttavia, se gli uiguri attuali erano davvero i discendenti di quella razza, il sangue antico doveva essersi mescolato e diluito fin quasi al punto di andare perduto.
Domandai che cosa c’entravo io, e Barr rispose che molto probabilmente i miei visitatori mi consideravano un purosangue della razza antica. Anzi, non trovava altre spiegazioni per il loro comportamento. Era convinto che l’esame delle mie mani e la loro manifesta approvazione costituissero una conferma.
Il vecchio Fairchild gli domandò, in tono ironico, se stava cercando di convertirci alla chiromanzia. Barr rispose, gelido, che lui era uno scienziato. Come scienziato, sapeva che certe somiglianze fisiche possono venire tramandate da fattori ereditari nel corso di parecchie generazioni. Certe particolarità nella disposizione delle linee della mano potevano persistere per secoli. E potevano ricomparire nei casi di atavismo, come me.
Ormai mi sentivo un po’ stordito. Ma Barr aveva in serbo qualche altro colpo per stordirmi ancora di più. Ormai si era scaldato: disse che gli uiguri potevano avere perfettamente ragione, in quello che, secondo lui, era stato il loro giudizio nei miei riguardi. Io rappresentavo un ritorno atavico agli antichi norvegesi. Benissimo. Era certo che gli Asi, gli antichi dèi norreni — Odino e Thor, Frigga e Freya, Frey e Loki del Fuoco e tutti gli altri — fossero stati personaggi reali. Senza dubbio erano stati i capi durante una lunga, pericolosa migrazione. Dopo la morte erano stati deificati, come era accaduto a molti altri eroi ed eroine di altre razze e di altre tribù. Gli etnologi erano concordi nel ritenere che il ceppo norvegese originario era arrivato nell’Europa nordorientale dall’Asia, come gli altri ariani. La migrazione poteva essere avvenuta in qualunque momento, tra il 1000 e il 5000 a. C. E non c’erano ragioni scientifiche per negare che gli immigrati fossero venuti dalla regione attualmente chiamata Gobi, e che avessero potuto essere la razza bionda da cui gli uiguri contemporanei affermavano di discendere.
Nessuno, proseguì Barr, sapeva esattamente quando il Gobi era diventato un deserto… e neppure quali cause l’avessero reso tale. Era possibile che ancora duemila anni prima parte del Gobi e tutto il Piccolo Gobi fossero ancora fertili. Comunque fosse avvenuto, qualunque causa avesse avuto, e qualunque fosse stata la sua durata, il cambiamento spiegava benissimo la migrazione guidata da Odino e dagli altri Asi, e conclusasi con la colonizzazione della penisola scandinava. Chiaramente, io rappresentavo un ritorno atavico alla razza di mia madre quale era stata mille anni prima. Non c’era motivo perché non fossi anche un ritorno atavico agli antichi uiguri… se erano loro gli antenati dei norvegesi.
Ma la considerazione pratica era un’altra: stavo per finire nei guai. E così pure tutti gli altri membri della spedizione. Barr ci consigliò insistentemente di ritornare al vecchio campo, dove ci saremmo trovati fra tribù amiche. In conclusione fece osservare che, da quando eravamo arrivati in quel posto, non un solo mongolo, tartaro o esponente delle tribù con cui io avevo stabilito rapporti così amichevoli si era più avvicinato a noi. Si sedette lanciando un’occhiataccia a Fairchild, e dichiarò che quello non era il consiglio di un chiromante, ma di uno scienziato degno di stima.
Fairchild, naturalmente, si scusò: ma respinse il consiglio di Barr; potevamo aspettare qualche giorno ancora, per vedere come si mettevano le cose. Barr replicò imbronciato che come profeta Fairchild era probabilmente un disastro, ma che molto più probabilmente eravamo tenuti sotto stretta sorveglianza, e non ci avrebbero permesso di andarcene; quindi la cosa non aveva importanza.
Quella notte sentimmo rullare dei tamburi, in distanza, tra vari intervalli di silenzio, sin quasi all’alba, riferendo e rispondendo alle domande di tamburi ancora più lontani.
Il giorno dopo, alla stessa ora, il drappello ritornò. Il capo venne diritto verso di me, ignorando come la volta precedente gli altri che erano al campo. Mi salutò quasi con umiltà. Tornammo insieme alla mia tenda. Ancora una volta venne cinta dalle sentinelle, e subito cominciò la mia seconda lezione, che durò due ore o più. Poi ogni giorno, per tre settimane, la scena si ripeté. Non ci furono conversazioni, né domande estranee, né spiegazioni. Quegli uomini erano lì per un unico scopo ben preciso: insegnarmi la loro lingua. E lo realizzavano ammirevolmente. Pieno di curiosità, ansioso di arrivare in fondo e di scoprire il significato di tutto ciò, non interposi ostacoli, e mi dedicai con il loro stesso rigore a quel compito. Accettarono anche questo come se l’avessero previsto. In tre settimane fui in grado di sostenere una conversazione in uiguro come se fosse inglese.
L’inquietudine di Barr cresceva.
«La stanno preparando per qualcosa!» diceva. «Darei cinque anni della mia vita per essere nei suoi panni. Ma non mi piace. Ho paura per lei. Ho una paura tremenda!»
Una notte, alla fine della terza settimana, i tamburi rullarono fino all’alba. Il giorno dopo i miei istruttori non comparvero, e neppure il giorno successivo, né quello dopo. Ma i nostri uomini riferivano che c’erano uiguri tutto intorno a noi, e circondavano il campo. Avevano paura, ed era impossibile convincerli a lavorare.