«Cosa dovrei ricordare?» chiesi.
Il suo sguardo mi abbandonò, cercò i visi degli altri, interrogativamente: come se il sacerdote avesse parlato, quelli si scambiarono occhiate, poi annuirono. Il vecchio richiuse l’astuccio di giada e se lo ripose in petto. Mi prese la mano, girò il castone dell’anello sotto il mio pollice e mi chiuse la mano.
«Ricordi…» La sua voce si abbassò fino a diventare il più fievole dei mormoni. «Khalk’ru?»
Ancora una volta il silenzio calò nella grande sala: questa volta era tangibile. Rimasi immobile, riflettendo. C’era qualcosa di familiare in quel nome. Avevo l’irritante sensazione che avrei dovuto conoscerlo; che se mi fossi sforzato, avrei potuto ricordarlo; che il ricordo stava appena al di là dei limiti della coscienza. Inoltre, avevo l’impressione che significasse qualcosa di spaventoso. Qualcosa che era meglio dimenticare. Provai un vago fremito di repulsione, frammisto ad un aspro risentimento.
«No,» risposi.
Udii il suono di molti, bruschi respiri. Il vecchio sacerdote si portò alle mie spalle e mi posò le mani sugli occhi.
«Ricordi… questo?»
La mia mente si annebbiò: poi vidi un’immagine, chiaramente, come se la stessi guardando ad occhi aperti. Stavo galoppando attraverso l’oasi, diretto alla grande porta nella montagna. Ma adesso non era un’oasi. Era una città ricca di giardini, ed un fiume lucente l’attraversava. Le colline non erano di spoglia arenaria rossa, e verdeggiavano di alberi. C’erano altri, con me, e galoppavano alle mie spalle… uomini e donne come me, biondi e forti. Ormai ero vicino alla porta. La fiancheggiavano immensi pilastri squadrati di pietra… ed io ero smontato dal mio cavallo… un grande stallone nero… stavamo entrando…
Non sarei entrato! Se fossi entrato, avrei ricordato… Khalk’ru! Mi spinsi indietro, fuori… sentii due mani sui miei occhi… sollevai le dita e le scostai con forza… le mani del vecchio sacerdote. Balzai dal seggio, fremente di collera. Mi voltai verso di lui. Il suo viso era benigno, la sua voce gentile.
«Presto,» disse, «ricorderai di più!»
Non risposi: mi sforzavo di controllare un inspiegabile furore. Ovviamente il vecchio sacerdote aveva cercato d’ipnotizzarmi: avevo visto ciò che egli aveva voluto che vedessi. Non per nulla i sacerdoti degli uiguri avevano fama di essere grandi stregoni. Ma non fu questo a suscitare la collera, così intensa che dovetti fare appello a tutta la mia volontà per non scatenarmi. No, era stato qualcosa… qualcosa nel nome di Khalk’ru. Qualcosa che stava dietro la porta scavata nella montagna, nella quale ero stato quasi forzato ad entrare.
«Hai fame?» La brusca transizione ad un problema così pratico, nella domanda del vecchio sacerdote, mi ricondusse alla normalità. Risi, e gli risposi che avevo fame davvero. E anche sonno. Avevo temuto che, essendo diventato un personaggio importante, a quanto sembrava, avrei dovuto cenare con il grande sacerdote. Provai un senso di sollievo quando mi affidò invece al capitano uiguro. Questi mi seguì come un cane, continuò a tenermi gli occhi addosso come fa un cane con il suo padrone, e mi servì come uno schiavo, mentre mangiavo. Gli dissi che avrei preferito dormire in una tenda, piuttosto che in uno degli edifici di pietra. Gli lampeggiarono gli occhi, e per la prima volta mi rivolse la parola in modo diverso dagli abituali monosillabi rispettosi.
«Sempre guerriero!» grugnì in tono di approvazione. Mi prepararono una tenda. Prima di andare a dormire, sbirciai dall’apertura. Il capo uiguro stava accosciato davanti all’ingresso, e molti lanceri erano disposti, spalla a spalla, in un doppio cerchio, per montare la guardia.
La mattina dopo, assai presto, venne a cercarmi una delegazione di sacerdoti di rango inferiore. Entrammo nello stesso edificio, ma in una sala molto più piccola, priva di mobili. Il gran sacerdote e altri di grado inferiore mi stavano aspettando. Mi attendevo parecchie domande, ma il vecchio non me ne rivolse neppure una: sembrava non fosse curioso di conoscere la mia origine, il mio luogo di provenienza, né il motivo della mia presenza in Mongolia. A loro pareva bastare di aver provato che io ero quel che speravano fossi… chissà chi. Inoltre, avevo l’impressione che ci tenessero ad affrettare il compimento di un piano che aveva avuto inizio con le mie lezioni. Il gran sacerdote entrò subito in argomento.
«Dwayanu,» disse, «vorremmo richiamare alla tua memoria un certo rituale. Ascolta attentamente, osserva attentamente, ripeti scrupolosamente ogni inflessione ed ogni gesto.»
«A che scopo?» domandai.
«Lo scoprirai…» cominciò il vecchio, poi s’interruppe brusco. «No! Te lo dirò ora! Affinché il deserto ritorni di nuovo fertile. Affinché gli uiguri possano ritrovare l’antica grandezza. Affinché venga espiato l’antico sacrilegio contro Khalk’ru, la cui conseguenza fu il deserto!»
«E cosa c’entro io, uno straniero, in tutto questo?» chiesi.
«Noi, cui tu sei venuto,» rispose il vecchio, «non abbiamo nelle vene abbastanza sangue antico per compiere ciò che deve essere compiuto. Tu non sei uno straniero. Tu sei Dwayanu, il Liberatore. Tu hai il sangue puro. Perciò tu solo, Dwayanu, puoi allontanare la maledizione.»
Pensai che Barr sarebbe stato felice di ascoltare quella spiegazione: si sarebbe divertito a punzecchiare Fairchild. M’inchinai al vecchio sacerdote, e gli dissi che ero pronto. Egli mi tolse l’anello dal pollice, si sfilò dal collo la catena ed il pendente di giada, e mi disse di spogliarmi. Mentre gli obbedivo, si tolse le vesti, e gli altri lo imitarono. Un sacerdote portò via tutto, e subito ritornò. Guardai le scarne figure dei vecchi ignudi intorno a me, ed all’improvviso persi la voglia di ridere. Quei preparativi erano sfumati di una colorazione sinistra. La lezione incominciò.
Non era un rituale: era un’invocazione… o meglio, era l’evocazione di un Essere, di una Forza, di un Potere chiamato Khalk’ru. Era estremamente bizzarra, come lo erano i gesti che l’accompagnavano. Veniva espressa, chiaramente, nella forma più arcaica dell’uiguro. C’erano molte parole che non comprendevo. Era stata trasmessa di gran sacerdote in gran sacerdote sin dall’antichità più remota. Persino un cristiano molto tiepido l’avrebbe considerata blasfema e dannata. Ma ero troppo interessato per pensarci. Provavo lo stesso strano senso di familiarità che avevo sentito la prima volta in cui era stato nominato Khalk’ru. Ma non provavo più repulsione. Sentivo di fare sul serio. Non so in che misura questo fosse dovuto alla forza di volontà concentrata dei dodici sacerdoti che non mi toglievano mai lo sguardo di dosso.
Non starò a ripetere l’invocazione: mi limiterò a renderne il senso. Khalk’ru era il Principio senza Principio, come sarebbe stato la Fine senza Fine. Era il Vuoto Tenebroso ed Eterno. Il Distruttore. Il Divoratore della Vita. L’Annientatore. Il Dissolutore. Non era la Morte: la Morte era solo parte di lui. Era vivo, vivissimo, ma il suo modo di vivere era l’antitesi della Vita quale noi la conosciamo. La Vita era un’intrusa che turbava l’eterna serenità di Khalk’ru. Dèi ed uomini, animali e uccelli, e tutte le creature, la vegetazione e l’acqua e l’aria e il fuoco, il Sole e le stelle e la Luna… tutto era suo, e doveva venire dissolto in Lui, il Nulla Vivente, se Egli così voleva. Tuttavia, Egli avrebbe dovuto permettere che continuassero ad esistere ancora per un poco. Perché Khalk’ru doveva curarsene, quando alla fine vi sarebbe stato solo… Khalk’ru? Egli doveva perciò ritrarsi dai luoghi brulli, affinché la vita potesse penetrarvi e farli fiorire nuovamente; doveva colpire solo i nemici dei suoi adoratori, affinché gli adoratori fossero grandi e potenti, a prova che Khalk’ru era Tutto nel Tutto. Era solo un breve respiro, nello spazio della sua eternità. Khalk’ru doveva manifestarsi nella forma del suo simbolo, e prendere ciò che gli veniva offerto, a dimostrazione che aveva ascoltato ed acconsentito.