Il vecchio ne aprì uno. Dentro c’era una cassa di legno, resa grigia dagli anni. Ne alzò il coperchio, e ne trasse due indumenti gialli. Me ne infilò uno sopra la testa. Era come una tunica, e mi arrivava alle ginocchia. Abbassai lo sguardo: vi era intessuta la piovra nera, che mi cingeva con i tentacoli.
Il sacerdote s’infilò l’altro camice: anche quello era ornato della figura della piovra, ma soltanto sul petto. I tentacoli non lo cingevano. Poi si chinò e tolse dal cofano un bastone dorato, alla cui estremità c’erano barre trasversali: da queste scendevano cerchi di campanellini d’oro.
Dagli altri cofani, i sacerdoti della nostra scorta avevano tratto dei tamburi, bizzarri strumenti ovali lunghi circa un metro, con i lati di metallo rosso e opaco. Sedettero, facendo ondeggiare sotto le dite le pelli, tendendole qua e là mentre il vecchio scuoteva delicatamente il bastone con i sonagli, provandone il tintinnio. Mi sembravano orchestrali occupati a intonare i loro strumenti. Provai di nuovo la voglia di ridere: allora non sapevo che la banalità può rendere più intenso l’orrore.
Oltre la porta chiusa dai drappeggi si udivano suoni, fruscii. Vi furono tre colpi risonanti, come d’un maglio battuto su un’incudine. Poi silenzio. I dodici sacerdoti varcarono la porta, tenendo fra le braccia i tamburi. Il vecchio mi accennò di seguirlo, e passammo dopo gli altri.
Mi trovai in un’immensa caverna, ricavata nella roccia viva dalle mani di uomini ormai ridotti in polvere da millenni. Dichiarava la sua immemorabile antichità come se le rocce avessero una lingua. Era assai più che antica: era primordiale. Era fiocamente illuminata, così fiocamente che io riuscivo appena e scorgere i nobili uiguri. Erano in piedi, con le bandiere dei clan tenute alte, le facce rivolte verso di me, sul pavimento di pietra, ad una trentina di metri da me, tre metri più in basso. Dietro di loro si estendeva la caverna, che svaniva nell’oscurità. Vidi che davanti a loro c’era una specie di truogolo incurvato, ampio, come lo spazio tra due lunghe onde: e come un’onda saliva dall’altra parte dell’infossatura, incurvandosi, increspandosi, come se quell’onda di pietra scolpita fosse un cavallone in atto di precipitarsi sopra di loro. L’increspatura formava l’orlo del rialzo sul quale mi trovavo io.
Il gran sacerdote mi toccò il braccio. Girai il capo, e seguii il suo sguardo.
A trenta metri di me c’era una ragazza. Era nuda. Era divenuta donna da poco tempo, e si vedeva che stava per diventare madre.
I suoi occhi erano azzurri come quelli del vecchio sacerdote, i suoi capelli di un bruno rossiccio, sfumato d’oro, la pelle di un pallido colorito olivastro. Il sangue della vecchia razza era forte, in lei. Sebbene si controllasse molto coraggiosamente, c’era il terrore nei suoi occhi, e l’ansimare rapido dei suoi seni rotondi rivelava ancor meglio quel terrore.
Era in piedi in una piccola cavità. Attorno alla vita aveva un cerchio d’oro, dal quale scendevano tre catene pure d’oro, fissate al pavimento di roccia. Capii a cosa servivano. Non poteva fuggire, e se fosse caduta, non avrebbe potuto strisciare fuori dalla cavità. Ma fuggire, strisciare via… da che cosa? Certamente non da me! La guardai e sorrisi. I suoi occhi interrogarono i miei. All’improvviso, il terrore l’abbandonò. Ricambiò il mio sorriso, fiduciosamente.
Dio mi perdoni… io le sorrisi, e lei si fidò di me!
Guardai più oltre, in un punto dal quale era venuto un bagliore giallo, simile alla lucentezza di un enorme topazio. Dalla roccia, una trentina di metri più indietro della ragazza, sporgeva un immenso frammento della stessa pietra gialla e trasparente che ornava il mio anello. Era come il frammento di un’immensa vetrata, e aveva una forma approssimativamente triangolare.
Dentro, nero, c’era un tentacolo del Kraken. Pendeva entro la pietra gialla, reciso dal corpo mostruoso quando la pietra era stata spezzata. Era lungo una quindicina di metri, e in tutta la sua lunghezza era costellato di ripugnanti ventose.
Ebbene, era orrendo… ma non era il caso di averne paura, pensai. Sorrisi di nuovo alla ragazza incatenata, e di nuovo incontrai la sua espressione di totale fiducia.
Il vecchio sacerdote mi aveva scrutato attento. Avanzammo fino a quando fummo a metà strada, tra l’orlo e la ragazza. Sul ciglio stavano accovacciati i dodici sacerdoti, con i tamburi sulle ginocchia.
Il vecchio ed io eravamo rivolti verso la ragazza ed il tentacolo reciso. Lui alzò il bastone dai campanelli dorati e li scosse. Dall’oscurità della caverna ebbe inizio un canto, una cantilena su tre toni, ripetuti e ripetuti e mescolati.
Il canto era primordiale quanto la caverna: era la sua stessa voce.
La ragazza non distoglieva mai gli occhi da me.
La cantilena terminò. Alzai le mani e feci i curiosi gesti di saluto che mi erano stati insegnati. Incominciai il Rituale di Khalk’ru…
Alle prime parole, m’invase la vecchia sensazione di familiarità… e qualcosa di più. Le parole, i gesti erano automatici. Non dovevo compiere sforzi di memoria. Non vedevo più la ragazza incatenata. Vedevo solo il tentacolo nero all’interno della pietra scheggiata.
Il rituale continuò, continuò… la pietra gialla si stava dissolvendo intorno al tentacolo… il tentacolo oscillava?
Cercai, disperatamente, di arrestare le mie parole ed i miei gesti. Non potei!
Qualcosa di più forte mi possedeva, muoveva i miei muscoli, parlava dalla mia gola. Provavo un senso d’inumana potenza. Il rituale precipitava verso il culmine della diabolica evocazione ed ora io sapevo che era veramente diabolica, e nello stesso tempo mi sembrava di rimanere in disparte, incapace d’impedirla.
E finì.
E il tentacolo fremette… si contorse… si protese verso la ragazza incatenata…
Vi fu un demoniaco rullo di tamburi, sempre più rapido, sempre più rapido in un tonante crescendo…
La ragazza mi stava ancora guardando… ma la fiducia era scomparsa dai suoi occhi… la sua faccia rifletteva l’orrore che era impresso sulla mia.
Il tentacolo nero si alzò, si protese!
Ebbi la rapida visione di un immenso corpo nebuloso, dal quale si tendevano altre spire frementi. Un soffio che aveva il gelo dello spazio mi sfiorò.
Il tentacolo nero si avvinghiò intorno alla ragazza…
Ella urlò… disumanamente… svanì… si dissolse… il suo urlo si affievolì… il suo urlo divenne un pigolio stridulo e sofferente… un sospiro…
Udii il tintinnio del metallo, là dove prima era la ragazza. Lo scrosciare delle catene e della cintura d’oro che l’avevano tenuta ferma, e che ricadevano vuote sulla roccia.
La ragazza era sparita!
Rimasi immobile. Un orrore d’incubo quale non avevo mai conosciuto negli incubi peggiori mi paralizzò…
Quella bambina si era fidata di me… io le avevo sorriso e lei si era fidata di me… e io avevo evocato il Kraken perché l’annientasse!
Un rimorso bruciante, una rabbia incandescente spezzarono i vincoli che mi tenevano prigioniero. Vidi il frammento di pietra gialla al suo posto, il tentacolo all’interno, nero ed inerte. Ai miei piedi giaceva prostrato il vecchio sacerdote: il suo corpo avvizzito tremava, le mani scarne graffiavano la pietra. Accanto ai loro tamburi erano proni gli altri sacerdoti, e sul pavimento della caverna i nobili… prostrati, umiliati, ciechi e sordi nella ebbra venerazione della Cosa terribile che io avevo evocato.