Frederik Pohl
Gli antimercanti dello spazio
Perché scrivo satire?
Chiedete piuttosto come potrei farne a meno.
Tennison Tarb
1
La donna faceva pena. Aveva cercato pateticamente di rendersi carina per il colloquio, ma era stata una perdita di tempo. Era piccola, con la pelle giallastra, l’aria malaticcia, e si inumidiva continuamente le labbra, guardandosi attorno. Non è per caso che le pareti del mio ufficio sono coperte di poster tridimensionali che reclamizzano prodotti di marca. — Accidenti — sospirò. — Farei qualsiasi cosa per una tazza di buon vecchio Caffeissimo!
La guardai con la mia più falsa espressione di genuino stupore. Toccai il suo dossier. — Strano. Qui dice che ai Venusiani avete detto che il Caffeissimo genera dipendenza ed è dannoso alla salute.
— Signor Tarb, posso spiegarvi tutto!
— Poi c’è quello che si legge sulla vostra richiesta di visto. — Scossi la testa. — È possibile? «Il pianeta Terra è marcio fino al midollo, dilaniato da crudeli campagne pubblicitarie, i suoi cittadini sono solo animali, in mano alle rapaci Agenzie pubblicitarie».
La donna spalancò la bocca. — Come l’avete avuto? Mi avevano detto che i documenti per il visto erano segreti! — Alzai le spalle senza rispondere. — Ho dovuto dirlo. Ti costringono ad abiurare alla pubblicità, altrimenti non ti fanno entrare — finì lamentosamente.
Mantenni la mia espressione cortese ma non troppo: settantacinque per cento «Mi piacerebbe potervi aiutare», e venticinque per cento «Però siete proprio disgustosa». Ormai c’ero abituato. Di quei tipi ne avevo visti almeno uno alla settimana, nei quattro anni che avevo passato su Venere, ma l’abitudine non me li aveva resi più simpatici. — Lo so di aver fatto un brutto sbaglio, signor Tarb — piagnucolò con voce piena di sincerità, gli occhi spalancati nella faccia emaciata. Be’, la sincerità era falsa, anche se ben recitata. Ma gli occhi erano terrorizzati. E il terrore era reale, perché di sicuro lei non voleva più restare su Venere. Si riconoscevano sempre i casi disperati. Il segno distintivo era la magrezza. I medici la chiamano anorexia ignatua. È quello che succede quando un normale consumatore terrestre, ben educato, si trova giorno dopo giorno? far la spesa in un negozio venusiano, e non riesce neppure a decidere cosa comprare per pranzo, perché non dispone dei consigli saggi e preziosi della pubblicità. — Vi prego, vi scongiuro… posso avere il visto di ritorno? — finì la donna, con quello che, suppongo, lei credeva fosse un sorriso d’implorazione.
Strizzai l’occhio all’ologramma di Fowler Schocken appeso al muro. Normalmente, avrei lasciato la derelitta in compagnia dei poster pubblicitari per una decina di minuti, mentre uscivo per qualche faccenda inventata lì per lì. Ma il mio istinto mi diceva che non ne aveva più bisogno… e poi un lieve formicolio alle ghiandole mi ricordò che non stavo parlando solo con quella disgraziata.
Calai la mazzata; basta con le buone maniere. — Elsa Dyckman Hoeniger — ruggii, leggendo il nome sulla richiesta di visto, — siete una traditrice! — La mascella ossuta della donna si abbassò per lo shock. I grandi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. — Secondo il vostro dossier venite da una buona famiglia di consumatori. Iscritta da bambina ai Giovani Inventori di Slogan. Un’ottima educazione alla G. Washington Hill University di New Haven. Un lavoro di responsabilità nelle Pubbliche Relazioni di una delle più grandi catene di gioiellerie… e vedo qui, un indice di resa di meno dello 0,1 per cento, un record che vi ha procurato la qualifica di «Superiore» nel vostro curriculum! Eppure, avete voltato le spalle a tutto. Avete disertato il sistema che vi ha dato la vita, siete fuggita in questo deserto abbandonato dalle vendite!
— Sono stata ingannata — piagnucolò lei, mentre le lacrime le scendevano lungo le guance.
— Certo che siete stata ingannata — ringhiai, — ma avreste dovuto avere l’onestà e il buon senso di impedirlo.
— Oh, vi prego! Farò… farò qualsiasi cosa! Lasciatemi solo tornare a casa!
Era il momento della verità. Strinsi le labbra per un momento. Poi: — Qualsiasi cosa — ripetei, come se non avessi mai sentito una parola del genere da un rinnegato che se la sta facendo sotto. La lasciai singhiozzare ancora un po’ finché le lacrime non si furono asciugate, mentre mi guardava piena di paura e disperazione. Quando il primo segno di speranza fece la sua apparizione, lanciai l’amo.
— Potrebbe esserci un modo dissi. E non aggiunsi altro.
— Sì, sì! Per favore!
Feci finta di studiare da capo il suo dossier. — Non subito, però — l’avvertii alla fine.
— Non importa — proruppe quella. — Aspetterò… settimane, se sarà necessario.
Feci una risata di scherno. — Settimane, eh? — Scossi la testa. — Elsa, non parlerete sul serio? Quello che avete fatto non può essere emendato in un paio di settimane… e neanche di mesi. Vi siete fatta un’idea sbagliata. Dimenticate quello che ho detto. Richiesta respinta. — Misi un timbro sul suo modulo e glielo restituii con una grossa stampigliatura rosso brillante: RESPINTO.
Mi appoggiai allo schienale, in attesa che finisse la sceneggiata. Andò come tutte le altre volte. Prima la costernazione. Poi uno sguardo infuriato. Infine si alzò adagio e uscì come in trance dall’ufficio. La recita non cambiava mai, e io la sapevo bene la mia parte.
Non appena la porta si chiuse, sogghignai rivolto al ritratto di Fowler Schocken e dissi: — Com’è andata? — Il ritratto sparì, e Mitzi Ku mi sorrise.
— Perfetto, Tenny — disse lei. — Vieni giù a festeggiare. — Era la risposta giusta. Mi fermai allo spaccio per comprare qualcosa con cui festeggiare.
Quando costruirono l’ambasciata terrestre, a Courtenay Center (o bisognerebbe dire: quando la scavarono) dovettero servirsi di mano d’opera locale. Era previsto dal trattato. D’altra parte, la roccia venusiana si sbriciola facilmente ed è facile da scavare. Così, quando il primo gruppo di diplomatici arrivò, i marine di guardia ebbero per un anno un doppio lavoro. Quattro ore in alta uniforme, a far la guardia al portone, altre quattro nelle viscere dell’ambasciata, a scavare e a preparare la nostra Sala di Guerra. I Venusiani non hanno mai sospettato di niente, malgrado metà ambasciata fosse piena di operai locali durante l’orario di lavoro: non avevano il permesso di entrare nelle toilette dei funzionari, e nell’ultimo stanzino di ciascuna toilette c’era la porta segreta del luogo dove l’addetta culturale Mitsi Ku teneva il suo poco culturale archivio.
Quando ci arrivai, senza fiato e tenendo in bilico una bottiglia di genuino whisky terrestre e una vaschetta di ghiaccio, Mitzi stava battendo sulla tastiera i dati di quella povera disgraziata. Alzò una mano per dirmi di non interromperla e mi indicò una sedia. Io preparai un paio di bicchieri e aspettai, tutto contento.
Mitzi era un tipo che si faceva notare: a cominciare dal colore bronzeo della pelle, per non dire di come parla e come si muove. Proprio il tipo che piace a me. Ha i capelli nerissimi, tipici delle orientali, ma gli occhi azzurri. È alta come me, ma fatta molto meglio. Presa nell’insieme (com’ero sempre pronto a fare io), era proprio la più bella spia che avessimo mai avuto all’ambasciata. — Peccato che io debba tornare a casa — dissi, quando lei fece una pausa.
— Già, Tenny — disse lei con aria assente, prendendo il bicchiere. — È un peccato.
— Potresti tornare anche tu — suggerii, non per la prima volta, e lei non rispose neppure. Non che me lo fossi aspettato. Non aveva nessuna intenzione di farlo, e sapevo il perché. Mitzi era su Venere solo da un anno e mezzo, e uno non può fare molta carriera in un’Agenzia con meno di tre anni di lavoro duro. La gente che torna tropo presto non si ripaga neppure e spese di viaggio. Provai un approccio differente. — Pensi di poterla utilizzare?