Questo prima di iniziare la terapia di rigetto e la disintossicazione finale, e di scoprire che la Fase Due certamente non si poteva chiamare semplicemente spiacevole. Era molto di più che spiacevole. Era un inferno.
Credo di non voler più parlare della Fase Due, perché ogni volta che cerco di farlo comincio a tremare. Però la superai. Mentre i veleni mi uscivano dal corpo, pareva che mi uscissero anche dalla mente. Quando il direttore mi strinse la mano, e mi rispedì nel mondo, questa volta coscientemente, mi sentivo… non ancora bene: più triste che bene, e più arrabbiato che triste. Ma forse, per la prima volta nella mia vita, razionale.
Il vero Tennison Tarb
1
Nella Fase Due si perde il conto del tempo, perché ogni giorno è brutto come quello successivo. Quando tornai in città, scoprii con sorpresa che era ancora estate, anche se gli alberi nel Central Park stavano cominciando a perdere le foglie. Il sudore correva lungo la schiena della mia pedalatrice di taxi. Il frastuono del traffico, fatto di grida, cigolii e scricchiolii, era punteggiato dai suoi colpi di tosse, secchi e catarrosi. C’era un allarme-smog, naturalmente. E lei non portava filtro sulla faccia, perché con un filtro non si riesce a inspirare abbastanza aria per mantenere il ritmo del traffico intenso. Mentre da Circle prendevamo per Broadway, un furgone bancario corazzato, con sei pedalatori, ci tagliò la strada; la pedalatrice sterzò bruscamente per evitarlo, e scivolò sulla strada viscida. Per un momento pensai che il taxi dovesse rovesciarsi. Lei si voltò a guardarmi con la faccia spaventata. — Scusate, signore — disse ansimando. — Con quelli lì non c’è niente da fare!
— Non importa — dissi. — Anzi, è una giornata così bella che farò il resto della strada a piedi. — Naturalmente lei mi guardò come se fossi matto, specialmente quando le dissi di seguirmi, nel caso avessi cambiato idea. Quando arrivammo all’edificio della Haseldyne & Ku, e la pagai con una grossa mancia, ormai si era convinta che fossi matto. Se ne andò in tutta fretta. Ma il sudore le si era asciugato sulla schiena,en on tossiva quasi più.
Non avevo mai visto una cosa del genere prima.
Salutai con dei cenni i colleghi che riconobbi, entrando. Mi guardarono con vari gradi di stupore, ma io ero troppo occupato a stupirmi di me stesso. Qualcosa era cambiato in me, al Centro Disintossicazione. Ero tornato con qualcosa di più dei buchi per le iniezioni di vitamine e il disgusto per le pillole verdi. Ero tornato con nuovi accessori nella testa. Cosa fossero di preciso non lo sapevo ancora, ma uno di questi sembrava rispondere al nome di «coscienza».
Quando entrai nel mio ufficio, Dixmeister mi guardò ad occhi spalancati, come gli altri. — Accidenti, signor Tarb — disse. — Sembrate scoppiare di salute! La vacanza vi ha fatto proprio bene!
Annuii. Mi stava dicendo solo quello che mi avevano detto nelle ultime mattine la bilancia e lo specchio. Avevo riguadagnato dieci chili. Non tremavo più. Non mi sentivo più neppure teso. Perfino i cartelloni luminosi e sonori della pubblicità non mi avevano risvegliato alcun desiderio, mentre percorrevo le strade. — Vai pure avanti col tuo lavoro — gli dissi. — Devo sentire Mitzi Ku prima di riprendere.
La cosa non fu facile. La prima volta che provai lei non c’era. Non c’era neppure la seconda, e quando la trovai, al terzo tentativo, c’era ma stava uscendo. — Il signor Haseldyne l’aspetta — l’avvertì la Terza Segretaria, ma Mitzi lo lasciò aspettare. Chiuse la porta. Ci baciammo. Poi lei fece un passo indietro.
Mi guardò. La guardai. Mi disse con aria sorpresa: — Tenny, ti trovo bene.
Io dissi: — Anche tu stai bene — e aggiunsi, per amore della verità: — per me. — Perché in realtà lo specchio di Mitzi non sarebbe stato così generoso con lei quanto il mio. Aveva un’aria terribilmente stanca, in effetti, ma al di là di questo fatto oggettivo c’era il fatto soggettivo che a me non importava che aspetto avesse: bastava che fosse con me. Data la sua carnagione, le occhiaie non sembravano così terribili. Ma c’erano; aveva l’aria di chi ha dormito poco, e forse ha saltato qualche pasto… ma ai miei occhi sembrava sempre splendida.
— È stato brutto, Tenny?
— Passabilmente brutto. — Avevo vomitato parecchio, avevo frugato in ogni angolo per cercare qualcosa con cui tagliarmi la gola. Ma non c’ero riuscito, e avevo avuto le convulsioni solo un paio di volte. Lasciai cadere il discorso. — Mitzi — dissi, — ho due cose importanti da dirti.
— Certo, Tenny, ma adesso ho tante di quelle cose da fare…
La interruppi. — Mitzi, voglio sposarti.
Lei serrò le mani. Il suo corpo si irrigidì. Spalancò tanto gli occhi, che temetti che le lenti a contatto le saltassero fuori.
Dissi: — Ho avuto un sacco di tempo per pensarci al Centro. Parlo sul serio.
Da fuori giunse il brontolio impaziente di Haseldyne. — Mitzi! Vogliamo andare?
Silenziosamente, automaticamente, lei tornò in vita. Prese la borsetta, aprì la porta, il tutto senza staccare gli occhi da me. — Muoviti — sbraitò Haseldyne.
— Vengo — disse lei; e rivolta a me, mentre si dirigeva verso l’ascensore: — Caro Tenny, non posso parlare adesso. Ti telefono.
E dopo aver fatto due passi, si voltò e tornò da me. E di fronte a Dio e a tutti quanti, mi baciò. Appena prima di sparire nell’ascensore, sussurrò: — Mi piacerebbe.
Ma non mi telefonò. Per tutta la giornata non sentii la sua voce.
Dal momento che non avevo mai proposto a nessuna di sposarmi, prima, non avevo alcuna esperienza che potesse indicarmi se quella era una reazione ragionevole. A me non pareva. Mi pareva piuttosto che fosse un comportamento tipico di Mitzi; non questa Mitzi, ma quell’altra di ottone che era rimasta su Venere, che quando avevamo fatto l’amore per la prima volta, e io avevo finito molto prima di lei mi aveva detto che avrei fatto meglio a stare più attento la prossima volta, altrimenti… Comunque, era una brutta sensazione. Ero sospeso nell’incertezza. E non le avevo detto l’altra cosa importante.
Per fortuna, c’erano un sacco di cose per tenermi occupato. Dixmeister aveva mandato avanti la baracca come ci si poteva aspettare: decentemente. Ma lui non era me. Lo tenni alzato fino a notte inoltrata, esaminando i suoi errori e ordinando cambiamenti. Quando poté andare a casa, era distrutto e irritato. Quanto a me, buttai una moneta per decidere dove passare la notte, e persi. Mi infilai m un albergo con letti privati a pochi isolati dall’ufficio, e tornai al lavoro la mattina presto. Quando andai all’ufficio di Mitzi, la sua Terza Segretaria mi disse che la Seconda Segretaria le aveva detto che la signorina Ku sarebbe stata fuori tutta mattina, insieme alla Prima Segretaria. Passai l’ora di pranzo (tutti i venticinque minuti che mi erano restati, cioè, perché una giornata non era stata sufficiente a rimettere in moto le cose nella direzione giusta) seduto nell’anticamera di Mitzi, usando il telefono della sua Prima Segretaria per far trottare Dixmeister. Mitzi non comparve. L’impegno della mattina era stato prolungato.
Quella sera andai nell’appartamento di Mitzi.
La porta mi lasciò entrare, ma Mitzi non c’era. Non c’era quando arrivai, alle dieci, e neppure a mezzanotte, e neanche quando mi svegliai alle sei, aspettai un po’, mi vestii e tornai in ufficio. Oh sì, signor Tarb, mi disse la sua Terza Segretaria, la signorina Ku aveva chiamato durante la notte per dire che era stata chiamata fuori città per un tempo indefinito. Si sarebbe messa lei in contatto con me. Presto.
Ma non fu così.
Una parte della mia testa archiviò quel fatto senza alcun commento, e continuò con quello che stava facendo. Che era di portare a compimento gli ordini ricevuti. Quello che Mitzi voleva da me, era far eleggere alcuni candidati. Era già settembre, e mancavano poche settimane alle «elezioni». C’erano molte cose per tenermi occupato, e quella parte della mia mente sfruttava o minuto a disposizione. E anche ogni minuto a disposizione di Dixmeister, e di tutti quelli del dipartimento Intangibili (Politica). Quando passavo per il corridoio, la gente degli altri dipartimenti distoglieva gli occhi e si toglieva di mezzo… per paura che li arruolassi a turni di dodici ore al giorno, immagino.