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David le toccò il braccio. Celia si girò, con un fremito. — Celia, ora calmati e mangia. Non parlare più. Più tardi… più tardi potrai raccontarci tutto.

Lei lo fissò e scosse lentamente la testa: — Mai più. Non ne parlerò mai più, David. Volevo soltanto che tu sapessi che non c'era nient'altro che potessi fare. Volevo tornare a casa, e non c'era nessun modo per farlo.

Ora le sue labbra non sembravano più bluastre per il freddo. David provò sollievo quando cominciò a mangiare. Era affamata. Le preparò un caffè, l'ultima delle sue razioni.

— C'è nient'altro che vorresti sapere su quello che è successo qui?

Celia scosse la testa: — Non ancora. Ho visto Miami, e la gente. Tutti cercavano di andare da qualche parte e facevano la fila per giorni interi, in attesa dei treni. Stanno evacuando completamente Miami. La gente cade morta, e la lasciano lì, a marcire. — Ebbe un violento tremito. — Oh, non dirmi nient'altro, per ora.

La tempesta era cessata, e l'aria della notte era fresca. Eissi si rannicchiarono sotto una coperta e rimasero seduti senza parlare, bevendo caffè nero, caldo. Quando la tazza cominciò a inclinarsi nella mano di Celia, David gliela tolse e con dolcezza distese la ragazza sul giaciglio che le aveva preparato. — Ti amo, Celia — le disse sommessamente. — Ti ho sempre amato.

— Anch'io ti amo David. Da sempre. — I suoi occhi si erano chiusi e le sopracciglia, nere, spiccavano sopra il pallore delle guance. David si chinò sopra di lei, le baciò la fronte e le tirò la coperta più in alto, avvolgendogliela intorno al collo e alle spalle, e si soffermò a lungo a guardarla dormire, prima di distendersi al suo fianco e di addormentarsi anche lui.

Celia si destò una volta, durante la notte, gemendo, contorcendosi, e David la tenne stretta fino a quando non si fu quietata. Lei non si svegliò del tutto e farfugliò parole incomprensibili.

La mattina dopo essi lasciarono la quercia e iniziarono il tragitto verso la fattoria dei Sumner. Celia cavalcò Mike fino a quando non ebbero raggiunto il carro. Qui, ella giunse tremando per l'esaurimento, e le sue labbra erano di nuovo bluastre, anche se il mattino era già caldo. Sul carro non c'era spazio sufficiente perché lei potesse distendersi, così David imbottì il retro del sedile di legno col sacco a pelo e le coperte, perché lei potesse almeno appoggiare la testa e riposare quando la strada non era troppo accidentata e i sobbalzi non eccessivamente violenti. Celia ebbe un debole sorriso quando lui le coprì le gambe con un'altra camicia, quella che si era sfilato di dosso.

— Non è freddo, sai — lei lo rassicurò. — Quel dannato germe fa qualcosa al cuore, credo. Nessuno ha voluto dirci niente in proposito. I miei sintomi hanno colpito tutto il sistema circolatorio.

— È stato grave? Quando te lo sei preso?

— Diciotto mesi fa, credo. Subito prima che ci costringessero a lasciare il Brasile. Ha completamente spazzato Rio. È lì che ci hanno portato quando ci siamo ammalati. Pochissimi sono sopravvìssuti. Praticamente nessuno degli ultimi casi registrati. È diventato sempre più virulento, col passar del tempo.

David annuì. — Qui è stato lo stesso. Qualcosa come il sessanta per cento di mortalità, fino a raggiungere, negli ultimi tempi, l'ottanta per cento.

Vi fu un lungo silenzio, dopo queste parole, tanto che lui pensò che fosse nuovamente sprofondata nel sonno. La strada era ridotta a due solchi paralleli stretti sempre più d'assedio dal sottobosco. Già l'erba ricopriva quasi del tutto la traccia, fuorché nei punti dove la pioggia aveva dilavato il terriccio, lasciando la roccia nuda. Mike prese ad avanzare a passo e David non gli fece fretta.

— David, quanta gente c'è all'estremità nord della valle?

— Circa centodieci — disse David. E rifletté: due su tre sono morti; ma non lo disse a voce alta.

— E l'ospedale, è stato costruito?

— Sì. Walt lo dirige.

— David, ora che stai guidando e non puoi guardarmi e vedere le mie reazioni o altro, parlami di questo posto. Che cosa è successo, chi è vivo, chi è morto… tutto.

Quando si fermarono a mangiare qualcosa, alcune ore più tardi, Celia disse: — David, vuoi fare l'amore con me, adesso, prima che ricominci a piovere?

Giacquero sotto una distesa di pioppi gialli, le cui foglie frusciavano incessantemente anche se non si avvertiva il minimo alito di vento. Sotto gli alberi sussurranti, le loro voci divennero bisbigli. Lei era così magra e pallida… ma dentro era calda e viva; il suo corpo s'inarcò per incontrare quello di David, e i suoi seni sembrarono protendersi a cercare il tocco delle sue mani, delle sue labbra. Le dita di lei gli affondarono nei capelli, nella schiena, nei fianchi, ora rigide e imperiose, ora rilassate e tremanti, stringendosi a pugno per poi riaprirsi, e tutto con frenesia. Lui sentì le unghie di lei che lo artigliavano alla schiena, ma fu come qualcosa che avvenisse lontano da lui, a una grande distanza. E alla fine tornarono ad esserci soltanto le foglie sussurranti e di tanto in tanto un lungo, singhiozzante sospiro.

— Ti ho amata per più di vent'anni, lo sai? — disse David, dopo un lungo intervallo di silenzio.

Lei rise: — Ti ricordi quando ti ho rotto il braccio?

Più tardi, di nuovo sul carro, la voce di lei gli giunse da dietro le spalle, sommessa, triste: — Siamo finiti, non è vero, David? Tu, io, tutti noi?

Al diavolo Walt, egli pensò, al diavolo le promesse, al diavolo la segretezza. E le riferì tutto sui cloni che si stavano sviluppando sotto la montagna, nel laboratorio, giù nelle profondità della caverna.

CAPITOLO QUINTO

Celia cominciò a lavorare nel laboratorio una settimana dopo il suo arrivo alla fattoria. — È il solo modo, per me, di riuscire a vederti — spiegò, affettuosamente, quando David protestò. — Ho promesso a Walt che avrei lavorato soltanto quattro ore al giorno, all'inizio. Va bene?

La mattina dopo David l'accompagnò per una visita completa alle attrezzature. Il nuovo ingresso della caverna era nascosto nella stanza delle caldaie, nel seminterrato dell'ospedale. La porta d'acciaio era incastonata nella roccia calcarea che circondava l'intera zona. Non appena ebbe attraversato la soglia, l'aria si fece più fredda e David avvolse con un soprabito le spalle di Celia. — Li teniamo qua dentro — spiegò, mentre staccava un secondo soprabito dalla rastrelliera alla parete, — per non suscitare sospetti. Due volte sono capitati qui degli ispettori governativi, e avremmo potuto destare i loro sospetti facendo vedere che c'infilavamo dei soprabiti semplicemente per andare in cantina. Comunque, non torneranno più.

Si addentrarono in un corridoio fiocamente illuminato, dal liscio pavimento, che si prolungava per un centinaio di metri fino a un'altra porta d'acciaio. Questa si apriva su una prima, grande stanza dall'alto soffitto a cupola. Era stata lasciata quasi come l'avevano trovata, con stalattiti e stalagmiti da ogni parte, anche se vi erano adesso molte panche, tavole e tavolini e una cucina perfettamente attrezzata. — La nostra stanza di emergenza, in previsione di piogge radioattive — spiegò David, facendole attraversare in fretta la cavità echeggiante. In fondo si apriva un altro corridoio, più stretto e accidentato del primo, in fondo al quale si apriva la sala degli esperimenti con gli animali.

Una parete era stata scavata per installarvi un computer, il quale sembrava curiosamente fuori posto, così incassato nel travertino rosa pallido. Al centro della stanza c'erano serbatoi, vasche e tubazioni, il tutto in vetro e acciaio inossidabile. Su entrambi i lati c'erano le file con i contenitori degli embrioni degli animali. Celia fissò per parecchi istanti, immobile, la scena, poi si voltò a fissare David, gli occhi sgranati per la sorpresa! — Quanti serbatoi avete?