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Le affascinanti simmetrie istituite dagli eventi e dalle vicende individuali sono rafforzate, come si accennava, dalla presenza di un ricco tessuto simbolico. Decisivo è il ruolo dell'ambiente naturale (tra cui spicca l'immagine della foresta), trasparente simbologia dell'inconscio, e nel quale infatti si compie il destino reale e psichico dei protagonisti. L'abbraccio protettivo e minaccioso, familiare ed arcano del paesaggio si ritrova inoltre nella presenza dominante dello Shenandoah, il fiume che guida i personaggi alla conoscenza di un passato di distruzione ed alla scoperta della loro identità. E altri ancora sono gli elementi che si possono cogliere in questo romanzo che affascina e coinvolge a più livelli perché, come tutta la narrativa della Wilhelm, sa parlarci non solo attraverso la logica razionale degli eventi, ma con un linguaggio più profondo in cui affiorano all'improvviso immagini e significati riposti che interrogano direttamente la nostra coscienza.

Piergiorgio Nicolazzini

PARTE PRIMA

DOVE UN TEMPO CANTAVANO GLI UCCELLI

CAPITOLO PRIMO

Ciò che David aveva odiato più di ogni altra cosa ai pranzi di famiglia dei Sumner, era il modo con cui tutti parlavano di lui come se non fosse lì.

— Ha mangiato abbastanza carne ultimamente? Ha un'aria così smunta…

— Lo stai viziando, Carrie. Se non vuol mangiare, non lasciarlo andar fuori a giocare. Sai, anche tu eri così.

— Quando avevo la sua età ero così forte e robusto che avrei potuto buttar giù un albero con un'accetta. Lui non riuscirebbe neppure a farsi strada in un po' di nebbia.

In quei momenti David s'immaginava invisibile, che galleggiava sopra le loro teste, non visto, mentre loro discutevano di lui. Quando qualcuno gli chiedeva se avesse già la ragazza, lo beffeggiavano, che lui rispondesse sì, o no, ricacciandolo in un ostinato mutismo. Dalla sua posizione privilegiata lui puntava allora una pistola a raggi contro lo zio Clarence, che gli era particolarmente antipatico perché era grasso, calvo e molto ricco. Lo zio Clarence inzuppava grossi pezzi di pane nel sugo di carne e nello sciroppo, o più spesso in un miscuglio di melassa e di burro, che rimestava sul piatto finché il tutto non assumeva l'aspetto di cacca di bambino.

— Pensa ancora di fare il biologo? Dovrebbe andare alla scuola di medicina e lavorare con Walt.

Lui puntava la sua pistola a raggi contro lo zio Clarence, ritagliandogli un bel tondo di polpa all'altezza dello stomaco, asportandoglielo con estrema delicatezza. Lo zio Clarence colava fuori dall'apertura, volando sulle teste di tutti i presenti.

— David. — Egli trasaliva allarmato, per poi tornare a rilassarsi. — David, perché non vai fuori a vedere che cosa combinano gli altri ragazzi? — Era la voce pacata di suo padre, che in realtà intendeva dire: Basta così. E l'attenzione di tutti passava a concentrarsi su qualche membro della figliolanza.

Quando David divenne più grande, imparò a capire i complessi legami che da bambino si era semplicemente limitato ad accettare. Zii, zie, cugini, secondi cugini, terzi cugini. E i membri acquisiti della famiglia, i fratelli, le sorelle e i genitori di quelli che erano entrati a farne parte attraverso matrimoni. C'erano i Summer e i Wiston e gli O'Grady e gli Heinemann e i Meyer e i Capek e i Rizzo, tutti facevano parte dello stesso grande fiume che scorreva attraverso la fertile vallata.

In particolar modo David ricordava le vacanze. La vecchia casa dei Sumner, al piano di sopra, fioriva disordinatamente in una moltitudine di camere da letto, oltre a un attico che da un'estremità all'altra era costellato di materassi e lenzuola, i giacigli dei bambini, con un enorme ventilatore incassato nella parete a ovest. Qualcuno veniva sempre a controllare che non fossero tutti rimasti soffocati, lassù nell'attico. I bambini più grandicelli, che avrebbero dovuto tener d'occhio i più piccoli, in realtà si divertivano a spaventarli, notte dopo notte, con storie di fantasmi. Il chiasso finiva per salire a livelli così alti che gli adulti erano costretti a intervenire. Lo zio Ron saliva con passo pesante le scale e c'era un fuggi fuggi generale, con risatine soppresse e gridolini soffocati, fino a quando tutti, in qualche modo, s'erano infilati in un letto o nell'altro: cosicché, quand'egli accendeva la luce del corridoio, illuminando debolmente l'attico, tutti i bambini sembravano dormire. Lo zio Ron si soffermava per qualche istante sulla soglia, poi chiudeva la porta, spegneva la luce e ridiscendeva le scale col suo passo greve, apparentemente sordo al riesplodere della baldoria dietro di lui.

Quando era zia Claudia a salire, la sua sembrava un'apparizione. Un minuto prima c'era un volare di cuscini, qualcuno piangeva, qualcun altro cercava di leggere alla luce di una pila, parecchi ancora giocavano a carte alla luce di un'altra pila, un crocchio di ragazze strette assieme parlavano fitto fitto bisbigliandosi quelli che dovevano essere deliziosi segreti, a giudicare dal modo in cui arrossivano e apparivano disperate se un maschio le sorprendeva… e poi la porta si apriva di colpo, la luce esterna cadeva su un incredibile disordine, e lei si stagliava netta, davanti a loro. Zia Claudia era molto alta e magra, con un naso enorme, e la sua pelle, eternamente abbronzata, aveva il colore del cuoio antico. Restava lì, immobile e terribile, e i bambini sgusciavano via in silenzio, ritornando ai propri letti. Zia Claudia non si muoveva fino a quando tutti non erano di nuovo al posto loro assegnato, poi tornava a chiudere la porta senza far rumore. Il silenzio si protraeva a lungo. Quelli più vicini alla porta trattenevano il respiro, cercando di capire, da qualche piccolo rumore, se la zia era ancora lì, in cima alle scale. Alla fine, qualcuno trovava sufficiente coraggio da socchiudere la porta, e se la zia Claudia se n'era davvero andata la baldoria ricominciava.

Gli odori delle vacanze erano profondamente impressi nel ricordo di David. Tutti gli odori ben noti: le torte di frutta e i tacchini, l'aceto che veniva mescolato ai colori per tingere le uova, il verde, il fumo denso e cremoso delle candele di polpa d'alloro. Ma il ricordo più vivido era l'odore della polvere da sparo che tutti portavano con sé alle celebrazioni del Quattro Luglio. Questo odore impregnava per giorni e giorni i capelli, le mani, i vestiti. Le mani restavano macchiate di porpora scuro quando coglievano le more, una delle immagini indelebili della sua infanzia. E, mescolato ad essa, l'odore dello zolfo che veniva copiosamente sparso sulle loro teste per sconfiggere le pulci.

Se non fosse stato per Celia, la sua infanzia sarebbe stata perfetta. Celia era sua cugina, figlia della sorella di sua madre. Aveva un anno meno di lui, ed era di gran lunga la più bella fra le sue cugine. Quand'erano ancora molto giovani, si erano reciprocamente promessi che un giorno si sarebbero sposati. Quando furono più grandi, e fu fin troppo chiaro che in quella famiglia nessuno avrebbe potuto sposare il proprio cugino, essi erano diventati nemici implacabili. David non ricordava chi e in che modo l'avesse loro fatto capire. Era certo che nessuno l'aveva mai detto in parole, ma essi lo sapevano. In seguito, quando non riuscivano ad evitarsi e s'imbattevano l'uno nell'altra, essi lottavano fra loro. Lei lo spinse con tanta violenza giù dal fienile, che gli ruppe un braccio, quando David aveva quindici anni; e ne aveva sedici quando lottarono selvaggiamente all'ingresso posteriore della fattoria dei Wiston, rotolandosi fino al recinto, a una ventina di metri di distanza. Si strapparono i vestiti di dosso, e a causa delle unghiate di lei, la schiena di David sanguinava copiosamente, mentre Celia si era scorticata una spalla contro un masso. Poi, in qualche modo, nel loro frenetico agitarsi, la guancia di lui scese fino al suo petto scoperto, ed egli smise di lottare. Divenne all'improvviso un tenero e singhiozzante idiota, ed ella ne approfittò per colpirlo alla testa con un sasso, ponendo così fine alla lotta.