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Qualcuno alzò la mano. Barry l'invitò a parlare con un cenno del capo. — E se non riusciremo a trovare una quantità sufficiente di apparecchiature funzionanti in tempo utile?

— In tal caso dovremo far ricorso al trapianto in un utero umano dei feti clonati. L'abbiamo già sperimentato in un certo numero di casi, abbiamo messo a punto la tecnica, ma sarebbe uno spreco delle nostre poche risorse umane, e se dovessimo utilizzare le nostre riproduttrici in questo modo, sarebbe necessario revisionare drasticamente, e a tutto nostro svantaggio, i tempi di lavoro. — Scrutò in silenzio la classe, poi riprese: — La nostra meta è eliminare del tutto la necessità di riproduzione sessuale. Poi saremo in grado di pianificare il nostro futuro. Se ci serviranno costruttori di strade, potremo clonarne cinquanta o cento a questo scopo, addestrandoli fin dall'infanzia e mandandoli poi fuori, al loro destino. Potremo clonare costruttori di barche e marinai, e inviarli lungo il fiume, fino al mare, a individuare i punti dove proliferano i pesci, e le vie da essi percorse… i pesci scoperti dai nostri primi esploratori nel Potomac. Cento agricoltori, per dare il cambio a quelli che preferiscono lavorare con le provette invece che zappare lungo i filari di carote.

Un nuovo fremito d'ilarità attraversò gli studenti. Anche Barry sorrise: senza eccezione alcuna, ognuno di loro faceva il suo turno di lavoro nei campi.

— Per la prima volta da quando l'uomo ha compiuto i primi passi sulla terra — egli concluse, — non ci saranno più disadattati.

— E neppure genii — commentò pigramente una voce. Barry guardò istintivamente in fondo alla classe e vide Mark ancora stravaccato sulla sua sedia, i suoi occhi azzurri, luminosi, che lo fissavano lievemente beffardi. Deliberatamente, Mark strizzò l'occhio a Barry, poi li chiuse ambedue e in apparenza riprese a dormire.

— Vi racconterò una storia, se volete — disse Mark. Era in piedi nella corsia tra due file di tre letti ciascuna. I fratelli Carver erano stati colpiti simultaneamente dall'appendicite. Sei volti identici lo fissarono, da entrambi i lati, poi uno di essi annuì. Avevano tredici anni.

— Una volta c'era un woji — cominciò Mark, avvicinandosi alla finestra. Qui si sedette incrociando le gambe, voltando le spalle alla luce del sole.

— Che cos'è un woji?

— Se m'interromperete con le vostre domande, non vi racconterò più niente — disse Mark. — Capirete che cos'è un woji a mano a mano che la storia andrà avanti. Questo woji viveva nelle profondità del bosco, e ogni anno, quando arrivava l'inverno, egli gelava fin quasi a morire. Ciò era dovuto al fatto che le piogge gelide lo inzuppavano e la neve lo copriva tutto, e per di più non aveva niente da mangiare perché tutte le foglie erano cadute, e lui si cibava di foglie. Un anno ebbe un'idea, andò da un grande abete rosso e gli disse la sua idea. Sulle prime l'abete rosso non volle neppure prendere in considerazione il suo suggerimento. Tuttavia il woji non se ne andò: restò lì a ripetere all'abete rosso la sua idea, e alla fine l'abete rosso pensò: che cosa aveva, lui, da perdere? Perché non provare? Perciò l'abete rosso disse al woji che facesse pure. Per giorni e giorni il woji si affaccendò con le foglie, arrotolandole strettamente e dandogli la forma di aghi. Usò alcuni di questi aghi per cucirle saldamente ai rami dell'albero. Poi salì in cima all'abete rosso e gridò al vento gelido, gli rise in faccia e gli disse che adesso non avrebbe più potuto fargli del male, perché lui aveva una casa e del cibo per tutto l'inverno.

«Gli altri alberi lo udirono e risero, e cominciarono a raccontarsi l'un l'altro la storia del piccolo, pazzo woji, che gridava al vento gelido, e finalmente anche l'ultimo albero lo seppe, là dove avevano appunto inizio il bosco e il suo mantello di neve. Quell'ultimo, o primo, albero era un acero, e rise facendo fremere violentemente tutte le sue foglie. Il vento gelido lo udì ridere e accorse soffiando, scatenandosi come una furia e scagliando ghiaccioli da ogni parte, e volle sapere che cosa mai ci fosse di così divertente. L'acero raccontò al vento gelido di quel piccolo, pazzo woji che aveva sfidato il suo potere di strappare le foglie agli alberi, e il vento gelido divenne sempre più furioso. Soffiò sempre più forte. Le foglie dell'acero divennero rosse e poi dorate per la paura, e infine caddero al suolo, e l'albero restò nudo, esposto al vento. Il vento gelido soffiò verso sud e anche gli altri alberi rabbrividirono e lasciarono cadere le loro foglie.

«Infine il vento gelido raggiunse l'abete rosso e urlò al woji di uscir fuori. Il woji si rifiutò. Era nascosto nel folto degli aghi dell'abete, dove il vento gelido non poteva né vederlo né toccarlo. Il vento soffiò con maggior forza e l'abete rabbrividì, ma i suoi aghi resistettero e non cambiarono affatto colore. Ora il vento gelido chiamò in aiuto la pioggia gelida, e l'abete rosso fu coperto di ghiaccioli; ma gli aghi non mollarono e il woji restò caldo e asciutto. Allora il vento gelido s'infuriò ancora di più e chiamò in aiuto la neve, e nevicò sempre più fitto, fino a quando l'abete sembrò una montagna di neve, ma all'interno di essa il woji era sempre al caldo e contento, accanto al tronco dell'albero, e quando l'albero si scrollò di dosso, con un rapido movimento, tutta la neve, il woji seppe che il vento gelido non avrebbe più potuto fargli del male.

«Il vento gelido ululò intorno all'albero per tutto l'inverno, ma gli aghi tennero duro, e il woji se ne stette comodo al caldo, e se di tanto in tanto sgranocchiava un ago, l'albero glielo perdonava, poiché gli aveva insegnato a non aver paura e a non cambiar colore, e a non soffrire senza ribellarsi per tutto l'inverno al vento gelido soltanto perché era questo che tutti gli altri alberi facevano. Quando venne la primavera gli altri alberi pregarono il woji di cambiare in aghi anche le loro foglie, e il woji finì per acconsentire. Ed è per questo che gli alberi sempreverdi sono sempreverdi.

— È tutto qui? — chiese uno dei fratelli Carver.

Mark annuì.

— Che cos'è un woji? Tu ci avevi detto che l'avremmo saputo, una volta finita la storia.

— È la creatura che vive tra i rami degli abeti rossi — sogghignò Mark. — È invisibile, ma a volte lo potete sentire. Di solito, ride. — Si alzò dalla sedia. — Devo andare — e si affrettò verso la porta.

— Non esiste una creatura del genere! — gridò uno dei fratelli.

Mark aprì la porta e guardò fuori con cautela. Lui non avrebbe dovuto essere lì. Poi si guardò alle spalle e chiese ai fratelli: — Come fate a sapere che non esiste? Siete forse stati là fuori, nel bosco, a sentirlo quando ride? — E, detto questo, si allontanò in fretta prima che comparissero un dottore o un'infermiera.

Un mattino, prima dell'alba, verso la fine di maggio, le famiglie si radunarono ancora una volta nei pressi della banchina per assistere alla partenza di sei barche e di altrettanti equipaggi di fratelli e sorelle. Questa volta non c'era allegria, non c'era stata alcuna festa, la sera prima. Barry era lì, accanto a Lewis, ed assisteva agli ultimi preparativi. Entrambi erano silenziosi.