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«Mi occuperò io dei dettagli finali,» disse Svengaard. Iniziò a controllare i sigilli della vasca, i monitor delle funzioni vitali, poi cominciò a smontare il generatore di mesoni.

Qualcuno deve parlare con i genitori, rifletté Potter.

«I genitori saranno delusi,» commentò Svengaard. «Di solito conoscono il motivo per cui viene chiamato uno specialista… e probabilmente nutrivano grandi speranze.»

La porta che dava sulla stanza dei preparativi si aprì, e nel laboratorio entrò un uomo che Potter riconobbe come un agente della Sicurezza della Centrale. Era biondo, con un viso rotondo e lineamenti che si tendeva a dimenticare cinque minuti dopo averli visti. L’uomo attraversò la stanza e si fermò di fronte a Potter.

Per me è la fine, si chiese Potter. Poi si sforzò di chiedere con voce ferma, «Cosa mi dice dei genitori?»

«Sono puliti,» rispose l’agente. «Niente dispositivi camuffati, una conversazione normale… terribilmente banale, ma normale.»

«Neppure una minima traccia di altro?» chiese Potter. «Non potrebbero avervi giocato lo stesso senza far uso di strumenti?»

«Impossibile!» replicò brusco l’altro.

«Il Dottor Svengaard pensa che il padre abbia un istinto di protezione troppo accentuato, e che la madre possegga un istinto materno materno troppo sviluppato.»

«Le registrazioni d’archivio dicono che è stato lei a modellarli,» ribatté l’agente.

«È possibile,» concesse Potter. «Qualche volta bisogna concentrarsi sui difetti più grossi e trascurare quelli meno importanti, pur di salvare l’embrione.»

«E oggi, ha per caso trascurato qualcosa?» domandò l’agente. «Mi è parso di capire che il nastro è stato cancellato… un incidente.»

Sospetta qualcosa? si chiese Potter. L’entità del pericolo, il suo coinvolgimento personale in quella faccenda minacciarono di sopraffare la sua mente. Dovette compiere uno sforzo sovrumano per conservare un tono di voce calmo, quasi noncurante.

«Ovviamente tutto è possibile,» rispose. Si strinse nelle spalle. «Ma non credo che sia successo niente di strano. Salvando l’embrione, abbiamo perso lo schema genetico da Optimate, ma qualche volta succede. Non possiamo vincere sempre.»

«Dovremo controllare l’incartamento dell’embrione?» volle sapere l’agente.

Brancola ancora nel buio, si disse Potter. Rispose, «Come desidera. Molto presto preparerò un nastro con il resoconto verbale sull’intervento; probabilmente sarà tanto accurato quanto quello visivo. Può anche attendere che sia pronto per poi analizzarlo, prima di decidere.»

«Lo farò,» disse l’agente.

Svengaard aveva allontanato il microscopio dalla vasca. Potter si rilassò leggermente. Nessuno avrebbe potuto dare un’occhiata casuale, ma pericolosa, all’embrione.

«Immagino che tutte queste precauzioni non siano servite a nulla,» disse Potter. «Mi dispiace, ma i genitori hanno insistito per osservare.»

«Meglio precauzioni dieci volte più numerose, che una coppia di genitori che sa troppo,» replicò l’agente. «Come mai il nastro è stato cancellato?»

«Un incidente,» rispose Potter. «L’equipaggiamento era usurato. Tra breve, le forniremo il rapporto tecnico.»

«Eviti di citare nel rapporto l’incoveniente,» disse l’agente. «Mi basterà la comunicazione verbale. Ora Allgood deve mostrare ogni rapporto alla Tuyere.»

Potter si permise un cenno pieno di comprensione. «Non si preoccupi.» Gli uomini che lavoravano per la Centrale conoscevano bene quelle cose. Ciascuno tentava di celare agli Optimati particolari che avrebbero potuto turbarli.

L’agente si guardò intorno, commentò, «Qualche giorno non avremo più bisogno di tutta questa segretezza. E per me sarà sempre troppo presto.» Si voltò.

Potter lo guardò andar via, pensando a quanto superbamente quell’agente si adattasse allo svolgimento dei compiti che la sua professione richiedeva. Un esemplare perfetto, con un solo difetto: una mente troppo fredda, troppo incline alla logica, dotata di insufficiente immaginazione, impreparata ad esplorare le strade del caso.

Se mi avesse torchiato, sarei crollato, confessando tutto, rifletté Potter. Avrebbe dovuto essere più curioso sull’incidente. Ma noi tendiamo ad emulare i nostri padroni, perfino nei loro difetti.

Potter iniziò ad avere maggiore fiducia nel successo della sua inattesa avventura. Si voltò per aiutare Svengaard a sbrigare gli ultimi particolari, chiedendosi, Come faccio a sapere che l’agente ha creduto alla mia spiegazione? Quella domanda non fu accompagnata da alcuna sensazione di disagio. So che mi ha creduto, ma perché l’ha fatto?

Poi comprese che la propria mente aveva assorbito informazioni sui geni — il funzionamento interno delle cellule e le loro manifestazioni esteriori — per tanti di quegli anni che quella mole di dati si era fuso in un superiore livello di comprensione. Ormai era capace di intuire le reazioni condizionate dalla manipolazione genetica, anche in base ad indizi involontari.

Posso leggere nella mente delle persone!

Fu una rivelazione sconvolgente. Potter si guardò intorno, osservò le infermiere che stavano terminando di smontare le apparecchiature. Quando i suoi occhi si posarono sull’addetta al computer, lui seppe che la donna aveva cancellato deliberatamente il nastro. Non ebbe più alcun dubbio su quel particolare.

CAPITOLO QUARTO

Lizbeth e Harvey Durant uscirono mano nella mano dall’ospedale, dopo il colloquio sostenuto con i due dottori, Potter e Svengaard. Sorridevano e facevano ondeggiare allegramente le loro mani intrecciate come bambini in vacanza — e in un certo senso lo erano.

La pioggia del mattino era stata fatta cessare e le nuvole si erano spostate verso est, al di sopra delle alte cime che torreggiavano sulla Megalopoli di Seatac. Il cielo era di un azzurro ceruleo, e un sole capriccioso vi navigava alto.

Una folla di persone, in ordine sparso di marcia, stava attraversando il parco che si stendeva dall’altro lato della strada: si trattava ovviamente dei lavoratori di qualche fabbrica o di un gruppo di lavoro impegnato negli esercizi fisici obbligatori. Erano uguali uno all’altro, e solo qualche occasionale tocco di colore mitigava la loro uniformità: una sciarpa arancione sulla testa di una donna, un panciotto giallo indossato da un uomo, lo scarlatto di un feticcio della fertilità che pendeva da un cerchietto d’oro al lobo di un’altra donna. Un uomo indossava un paio di scarpe verde vivo.

Quei patetici tentativi di affermare la propria individualità in un mondo in cui l’uniformità era inscritta nel codice genetico fecero breccia nelle difese emotive di Lizbeth. Distolse il viso, per evitare che quella scena le cancellasse il sorriso dalle labbra, e chiese: «Dove andiamo?»

«Hmmm?» Harvey la fece fermare, e attesero che il resto del gruppo li superasse.

Tra i marciatori, dei volti si girarono per osservare con invidia Harvey e Lizbeth. Tutti sapevano perché i Durant erano lì. L’ospedale, la cui enorme mole in plasmeld si ergeva alle spalle della coppia, il fatto che fossero insieme, l’abbigliamento, i sorrisi… tutto contribuiva a indicare che erano in permesso di procreazione dai rispettivi lavori.

Ogni individuo in quella folla sperava disperamente in quella medesima scappatoia dalla monotonia quotidiana in cui erano tutti imprigionati. Gameti fertili, permesso di procreazione: quello era il sogno di tutti. Perfino coloro che sapevano di essere Sterili speravano ancora, alimentando le fortune di ciarlatani e fabbricanti di feticci.

Non hanno un passato, rifletté Lizbeth, ricordandosi di colpo un’osservazione comune a tutti i filosofi della Gente. Sono tutti senza passato, e hanno soltanto la speranza del futuro a cui aggrapparsi. In una qualche epoca, il nostro passato è svanito nelle tenebre; sono stati gli Optimati e i loro ingegneri genetici a cancellarlo.