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L’esame continuò, e Allgood ebbe l’impressione che durasse più a lungo del solito. Spostò la propria attenzione allo scenario che circondava l’edificio. Era stranamente pacifico, in pieno contrasto con l’atmosfera della Centrale, e Allgood lo sapeva.

Comprese che la possibilità che aveva avuto di accedere agli archivi segreti e perfino ai vecchi libri gli aveva fornito una conoscenza sulla Centrale fuori dal comune. Il feudo degli Optimati si stendeva per parecchi chilometri in un territorio che un tempo aveva costituito parte del Canada e degli Stati Uniti settentrionali. Occupava una zona approssimativamente circolare di settecento chilometri di diametro; contava duecento piani sotterranei. Era una regione in cui erano ubicati molteplici centri di controllo: controllo metereologico, controllo genetico, controllo dei batteri, controllo degli enzimi… controllo degli esseri umani.

In quel piccolo angolo del complesso, il cuore dell’intera Amministrazione, i dintorni erano stati trasformati in un giardino all’italiana, con tocchi di tinte pastello. Gli Optimati erano persone capaci di spianare una montagna per puro capriccio. Nel territorio della Centrale la natura era stata addomesticata, derubata della sua pericolosa selvatichezza. Anche quando gli Optimati modellavano un panorama, in esso mancava quell’elemento drammatico egualmente assente nelle loro vite.

Spesso Allgood rifletteva su quella caratteristica. Aveva visto dei film di epoche precedenti l’avvento degli Optimati e si era reso conto delle differenze. La meticolosa raffinatezza della Centrale gli sembrava in rapporto con gli onnipresenti triangoli rossi che indicavano i Dispensatorii Farmaceutici in cui gli Optimati conservavano le preziose scorte d’enzimi.

«Ci stanno mettendo troppo tempo o è solo una mia impressione?» chiese Boumour. Aveva una voce dal tono ricco, quasi baritonale.

«Pazienza,» rispose Igan. La sua era una voce da tenore.

«Sì,» disse Allgood. «La pazienza è la migliore alleata di un uomo.»

Boumour guardò il capo della Sicurezza, studiandolo, riflettendo. Allgood non era tipo da perdersi in chiacchiere; quando parlava, aveva sempre qualche scopo in mente. Era lui, e non gli Optimati, la minaccia maggiore per la Congiura. Era totalmente dalla parte dei suoi padroni: un burattino perfetto. Perché oggi ci ha ordinato di accompagnarlo qui? si chiese Boumour. Sa qualcosa? Ci denuncerà?

L’incredibile bruttezza di Allgood affascinava Boumour. Il capo della Sicurezza era un semplice basso e tarchiato, con un viso tondo e saettanti occhi a mandorla, un ciuffo di capelli scuri che gli ricadeva sulla fronte: un genotipo Shang, o almeno così si intuiva dal suo aspetto.

Allgood si voltò verso la Barriera di Quarantena, e con un sussulto provocato da un’intuizione improvvisa Boumour comprese che la bruttezza esterna di Allgood scaturiva da quella interiore. Era la bruttezza creata dalle paure, sue e di coloro che proteggeva. Quella comprensione provocò in Boumour un’improvvisa sensazione di sollievo, che egli segnalò a Igan attraverso pressioni esercitate dalle proprie dita sulla spalla dell’altro.

Igan si scostò improvvisamente da Boumour, per guardare la campagna. È ovvio che Max Allgood abbia paura, pensò. Vive immerso in un groviglio inestricabile di paure… proprio come gli Optimati… povere creature.

La vista che era possibile godere dalla Centrale iniziò a imprimersi sui sensi di Igan. Quella era una giornata di primavera tanto perfetta da sembrare irreale, ed era stato il Centro di Controllo Metereologico a stabilire che fosse così. La scalinata che conduceva all’edificio dell’Amministrazione guardava verso un lago, rotondo e perfetto come una lastra di smalto azzurro. Su di una bassa collina alle sue spalle, sorgevano alcuni plinti di plasmeld, simili a pietre bianche: erano gli ingressi degli ascensori che scendevano nella superprotetta e segreta fortezza degli Optimati, duecento piani più in basso.

Oltre la collina, il cielo diventava di un oleoso color azzurro cupo. Era attraversato di tanto in tanto da bagliori rossi, verdi e dorati, secondo uno schema piuttosto banale. Poi si udì un rombo smorzato: da qualche parte, nel territorio della Centrale, un Optimate aveva dato il via per divertimento a un temporale controllato.

Igan pensò che si trattava di una dimostrazione futile, priva di pericolo o di dramma… due parole, decise, che avevano lo stesso significato.

Quel giorno, la tempesta era la prima cosa vista da Allgood che si adattasse alla sua interpretazione dell’atmosfera che pervadeva la Centrale. Per lui, la Centrale era la sede di un potere supremo e oscuro. Le persone svanivano in essa e non erano mai più riviste, e solo lui, il capo della Sicurezza, e una manciata tra gli agenti più fedeli, erano a conoscenza del loro fato. Allgood aveva l’impressione che lo scoppio di tuono si adattasse alla perfezione ai suoi sentimenti; era un suono che simboleggiava un potere assoluto. In preda alla tempesta, adesso il cielo stava assumendo un acido colore giallastro, mentre le nubi disperdevano l’aria primaverile. I plinti, sulla collina che dominava il lago, erano divenuti cenotafi pagani profilati contro uno sfondo verde-porpora.

«Possiamo proseguire,» lo avvertì Boumour.

Allgood si voltò e scoprì che la Barriera di Quarantena si era sollevata. Entrò per primo nella Sala del Consiglio con le sue pareti di scintillante materiale adamantino e i suoi banchi di plasmeld vuoti. Il terzetto attraversò lingue ondeggianti di vapore profumato, che si aprirono al loro passaggio.

Accoliti Optimati, che indossavano cappe verdi fissate alle spalle da fibbie di diamanti, uscirono dall’oscurità che avvolgeva la maggior parte della sala per scortarli. Sulle loro cappe erano intessute zampogne di platino, ed essi agitavano turiboli d’oro che emanavano nuvole rosa di antisettico.

Allgood mantenne la sua attenzione sull’altra estremità della sala. Là, un globo gigantesco, rosso come una radice di mandragora, era sospeso tra una miriade di raggi luminosi. Aveva un diametro di circa quaranta metri, e una delle sue sezioni era ripiegata all’indietro, come se a un’arancia fosse stata tagliata via un pezzo di buccia. Quello era il Centro di Controllo della Tuyere, lo strumento dotato di bizzarri poteri, e di apparati sensori ancora più strani, mediante i quali essi dominavano i loro sudditi. All’interno lampeggiava una miriade di luci verdi fosforescenti, insieme all’azzurro intenso delle lampade ad arco. Grandi quadranti rotondi inviavano messaggi e luci rosse guizzavano ammiccanti. Cifre scorrevano apparentemente attraverso l’aria, mentre simboli esoterici danzavano su nastri di luce.

Al centro, simile al nocciolo del frutto, si ergeva una colonna bianca, che sosteneva una piattaforma triangolare. Ai vertici del triangolo, assisi su troni in plasmled dorato, sedevano i tre Optimati conosciuti come la Tuyere — amici, compagni, eletti come supremi dominatori di quel secolo, e con ancora settantotto anni di potere innanzi a loro. Per i tre, quel mandato era lungo quanto un battito di ciglia, e spesso rappresentava una seccatura, in quanto li costringeva ad affrontare realtà spiacevoli che gli altri Optimati mascheravano con l’uso di eufemismi.

Gli accoliti si fermarono a venti passi dal globo, ma continuarono ad agitare i loro turiboli. Allgood avanzò di un passo, fece segno a Igen e Boumour di fermarsi. Il capo della Sicurezza sapeva fin dove poteva spingersi, in quel luogo. Hanno bisogno di me, si disse. Ma non nutriva illusione alcuna sui pericoli che quel colloquio avrebbe potuto riservargli.

Allgood sollevò lo sguardo verso il centro del globo. Un sottile e danzante schermo d’energia formava come un velo ingannevolmente trasparente; attraverso di esso, si intravedevano forme, profili, ora chiari, ora confusi.

«Sono venuto,» annunciò Allgood.

Boumour e Igan ripeterono quella formula di saluto, ricordando a se stessi il protocollo che in quel luogo doveva essere rigidamente osservato: Chiamate sempre per nome l’Optimate a cui vi state rivolgendo. Se non conoscete il suo nome, chiedeteglielo umilmente.