«Che idea disgustosa,» fu il commento di Calapine. Si girò verso Nourse. «Ti stai dedicando ancora a da Vinci, mio caro?»
«Sì, alla sua pennellata,» rispose Nourse. «Imitarla richiede molta applicazione. Ma dovrei riuscire a replicarla alla perfezione in quaranta o cinquanta anni. Molto presto, in ogni caso.»
«Purché tu compia tutti i passi in maniera appropriata,» commentò sardonico Schruille.
Nourse replicò, «Qualche volta, Schruille, il tuo cinismo raggiunge i limiti della buona educazione.» Si girò, studiò i quadranti, i sensori, le spie e gli schermi inseriti tra lui e Calapine nella parete interna del globo. «Oggi tutto è ragionevolmente tranquillo. Cal, lasciamo il controllo a Schruille, andiamo a fare una nuotata, e magari una puntatina in Farmacia.»
«Mantenersi in esercizio, mantenersi in esercizio,» si lamentò Schruille. «Hai mai pensato di fare venticinque vasce, invece di venti?»
«Ultimamente fai delle affermazioni tra le più sorprendenti,» si stupì Calapine. «Vorresti forse che Nourse metta a repentaglio il suo equilibrio chimico? Temo di non riuscire più a comprenderti.»
«Non ci provi neppure,» replicò Schruille.
«Possiamo fare qualcosa per te?» chiese Calapine.
«I miei bioritmi mi hanno sprofondato in una terribile monotonia,» ammise Schruille. «Voi non potete far nulla per rimediare a questa situazione?»
Nourse osservò Schruille attraverso il riflettore prismatico. Ultimamente la voce di Schruille, con il suo tono lagnoso, stava diventando così irritante! Nourse iniziava già a rimpiangere che la comunione di gusti e la necessità li avessero messi insieme. Ma forse, quando sarebbe terminato il mandato della Tuyere…
«Monotonia,» ripeté Calapine. Poi si strinse nelle spalle.
«C’è qualcosa di trionfale in una monotonia ben ponderata,» disse Nourse. «È una frase di Voltaire, se non mi sbaglio.»
«Strano, sembrava proprio una delle tue,» ironizzò Schruille.
«Qualche volta mi sembra utile invocare un benigno interessamento nei confronti della Gente,» disse Calapine.
«Anche quando siamo soli?» chiese Schruille.
«Pensa al fato dell’infermiera addetta al computer,» disse Calapine. «In astratto, naturalmente. Non provi un senso di rammarico o di pietà?»
«La pietà è un’emozione inutile,» ribatté Schruille. «E il rammarico è pericolosamente affine al cinismo.» Sorrise. «Ti passerà. Andate pure a nuotare. E quando vi sentirete in forma, pensate a me… che sono qui.»
Nourse e Calapine si alzarono, richiesero i raggi trasportatori.
«Efficienza,» disse Nourse. «Dobbiamo esigere maggiore efficienza da coloro che ci servono. Le cose devono funzionare meglio.»
Schruille sollevò lo sguardo su di loro, mentre attendevano i raggi. Desiderava soltanto non udire più il frastuono incoerente delle loro voci. Non capivano, non volevano capire.
«Efficienza?» rifletté Calapine. «Forse hai ragione.»
Schruille non riuscì a contenere le emozioni contrastanti che infuriavano nel suo animo. «L’efficienza è l’opposto dell’abilità!» esclamò. «Pensateci sopra!»
I raggi arrivarono. I due vennero trasportati via, senza rispondergli, e lasciarono che fosse Schruille a richiudere il segmento. Poi sedé, finalmente solo, all’interno del centro di controllo che ammiccava di luci verdi, azzurre e rosse… solo tranne gli occhi scintillanti dei sensori video montati lungo l’orlo superiore del globo. Ne contò ottantuno attivati, che fissavano lui e il funzionamento del globo. Ottantuno dei suoi pari… o gruppi di essi che osservavano lui e il suo lavoro, mentre Schruille osservava a sua volta la Gente e le attività che essa svolgeva.
I sensori misero Schruille leggermente a disagio. Prima di prestare servizio nella Tuyere, non aveva mai osservato il globo e i suoi occupanti. In quel luogo avvenivano troppe cose terribili, a cui era meglio non pensare. Forse la Triade precedente era curiosa del loro lavoro? Chi erano coloro che li stavano osservando?
Schruille rivolse la sua attenzione agli strumenti. Spesso, in momenti del genere, gli sembrava di essere il "Signore della Verità" di Chen Tzu-ang, che vedeva l’intero mondo in una bottiglietta di giada. Bene, quel luogo era la sua bottiglia di giada. Gli sarebbe bastato sfiorare un bracciolo del trono con il suo anello di controllo per osservare una coppia che faceva l’amore a Warsopolis, studiare l’embrione contenuto in una vasca nella Grande Londra o liberare gas ipnotico in qualche strada di Nuova Pechino. Doveva soltanto sfiorare un pulsante e avrebbe potuto analizzare i ritmi mutevoli di un intera forza lavoro nella Megalopoli di Roma.
Scrutando nel proprio animo, Schruille non trovò alcuna ragione che lo spingesse a farlo.
Tentò di ricordare quanti visori erano stati accesi durante i primi anni del mandato della Tuyere; era sicuro che non superassero la dozzina. Adesso, invece, erano ottantuno.
Avrei dovuto avvertirli di fare attenzione a Svengaard, pensò. Avrei dovuto dir loro che possono far affidamento su una Provvidenza di tipo speciale per gli stolti. E Svengaard è uno sciocco che mi preoccupa.
Ma sapeva che Nourse e Calapine avrebbero sicuramente difeso Svengaard. Avrebbero insistito che quell’uomo era fedele, leale, degno di fiducia. Avrebbero scommesso qualsiasi cosa sulla sua lealtà.
Qualunque cosa? si chiese Schruille. Ma c’è qualcosa che non scommetterebbero sulla lealtà di Svengaard?
A Schruille parve quasi di udire Nourse che con tono supponente affermava, «Il nostro giudizio su Svengaard è esatto.»
Ed è questo che mi preoccupa maggiormente. Svengaard ci adora… come Max. Ma l’adorazione, per nove decimi, si basa sulla paura.
E col passare del tempo, scaturisce esclusivamente da essa.
Schruille alzò lo sguardo verso i visori accesi, parlò ad alta voce, «Tempo-tempo-tempo…»
E adesso lasciamo che si rodano il fegato, pensò.
CAPITOLO SETTIMO
Il luogo era una stazione di pompaggio del sistema di riciclaggio della Megalopoli di Seatac; si trovava a più di quattrocento metri di profondità e pompava nella Grande Colata acqua destinata all’irrigazione: un sottoprodotto del processo di riciclaggio. Era un edificio di quattro piani, un intrico di tubi, console di computer, passerelle d’accesso illuminate da fotoglobi sospesi su campi di forza, e pulsava al ritmo delle gigantesche turbine che controllava.
I Durant erano scesi laggiù durante l’ora di punta serale, servendosi dei condotti riservati al personale, muovendosi con calma, assicurandosi che nessuno li stesse seguendo e che non avessero su di sé alcun dispositivo-spia. Fino a quel momento, avevano superato senza difficoltà cinque punti di controllo.
Tuttavia erano stati attentissimi a "leggere" le espressioni e il comportamento delle persone che incontravano. La maggior parte di esse erano semplici, frettolosi cittadini, impegnati nei loro affari. Occasionalmente scambiavano uno sguardo di riconoscimento con un altro corriere, oppure identificavano qualche preoccupato funzionario di basso rango, in giro per eseguire un incarico per conto degli Optimati.
Nessuno si accorse di una coppia, vestita in abiti marroni come tutti i lavoratori, che emerse con le mani intrecciate sulla Passerella Nove della stazione di pompaggio.
I Durant si fermarono e si guardarono intorno. Erano stanchi, esaltati e anche un po’ timorosi: infatti erano stati convocati nel quartier generale dell’Associazione dei Genitori Clandestini. L’atmosfera era satura dell’odore di idrocarburi. Lizbeth annusò l’aria.
Ciò che disse al marito mediante il loro codice privo di parole fu leggermente venato di tensione. Harvey si sforzò di rassicurarla.
«Probabilmente incontreremo il nostro Glisson,» le disse.