«Potrebbero esistere altri Cyborg che hanno lo stesso nome,» replicò lei.
«È altamente improbabile.»
Harvey la spinse dolcemente verso la passerella, superarono una delle luci sospese, e due lavoratori che osservavano dei contatori Picot, con volti a cui l’illuminazione proveniente dal basso conferiva un aspetto bizzarro.
Lizbeth percepiva quanto fosse pericolosa la loro posizione e chiese, «Come facciamo ad essere sicuri che loro non ci stanno osservando?»
«Sai bene che questo è uno dei posti sotto il nostro controllo,» replicò Harvey.
«Ma come è possibile?»
«Basta filtrare i dispositivi spia attraverso un computer ottico. Di conseguenza, gli Optimati vedono soltanto ciò che noi vogliamo che vedano.»
«Comunque è pericoloso fidarsi di un simile espediente,» commentò Lizbeth. «Perché ci hanno convocato?»
«Lo sapremo tra pochi minuti,» rispose lui.
I Durant superarono un portello a tenuta stagna, che serviva a escludere la polvere, ed entrarono in un deposito di attrezzi, sulle cui pareti grigie si aprivano i fori dei tubi di trasmissione, oltre l’inevitabile computer che ticchettava, ronzava e lampeggiava. L’atmosfera di quel luogo era satura di un odore dolciastro di olio.
Quando il portello si richiuse alle spalle dei Durant, una figura apparve alla loro sinistra e si sedette su di una panca imbottita di fronte alla coppia.
I Durant la fissarono in silenzio. Avendola poi riconosciuta, provarono nei suoi confronti un moto istintivo di repulsione. La figura che stava loro di fronte non era né quella di un uomo né tantomeno quella di una donna. Mentre li osservava, sembrò formare un tutt’uno con la panca su cui sedeva. Poi quell’essere estrasse da una delle tasche della sua tuta grigia dei cavi e iniziò a inserirli nel computer montato nella parete.
Harvey concentrò la propria attenzione sul volto squadrato, profondamente segnato, dello sconosciuto, sui suoi occhi color grigio chiaro, vuoti, freddi, con lo sguardo carico di quell’attenzione priva di qualunque sfumatura emotiva che era tipica dei Cyborg.
«Glisson,» chiese Harvey, «è stato lei a convocarci?»
«Sono stato io,» rispose il Cyborg. «Sono passati molti anni, Durant. Ha ancora paura di noi? Vedo che è così. Siete in ritardo.»
«Non conosciamo bene questa zona,» si difese Harvey.
«E abbiamo fatto molta attenzione a non farci scoprire,» aggiunse Lizbeth.
«Allora vi ho insegnato bene,» commentò Glisson. «Eravate due alunni ragionevolmente bravi.»
Mediante il codice segreto, Lizbeth comunicò al marito: «Sono così difficili da leggere, ma c’è qualcosa che non va.» Distolse lo sguardo da quello del Cyborg, agghiacciata da quegli occhi calcolatori. A dispetto dei suoi sforzi per considerarli creature fatte di carne e sangue, la mente di Lizbeth non riusciva a dimenticare che i corpi dei Cyborg contenevano computer miniaturizzati collegati direttamente al loro cervello, mentre gli arti erano strumenti oppure armi. E la loro voce, poi: monocorde, con un tono che non ammetteva repliche.
«Lei non dovrebbe temerci, signora,» disse Glisson. «A meno che lei non sia la vera Lizbeth Durant.»
Harvey, incapace di reprimere un moto di rabbia, esclamò, «Non si rivolga a mia moglie in questo modo! Noi non siamo di sua proprietà.»
«Qual è la prima lezione che vi ho impartito, dopo avervi reclutati?» chiese Glisson.
Harvey riacquistò il proprio auto-controllo, si sforzò di sorridere. «Non perdere mai la calma,» rispose. La mano di Lizbeth continuava a tremare nella sua.
«Allora è evidente che lei non l’ha imparata alla perfezione,» commentò Glisson. «Avevo sopravvalutato la sua capacità di auto-controllo.»
Lizbeth segnalò a suo marito, «Era pronto ad usare la violenza contro di noi.»
Harvey le segnalò di essersene accorto anche lui.
«Per prima cosa,» continuò Glisson, «voglio il vostro rapporto completo sull’operazione.» Vi fu una pausa, mentre il Cyborg cambiava la connessione dei cavi al computer. «Non fatevi distrarre da ciò che sto facendo. Creo false immagini di strumenti — in modo che,» e indicò il deposito, «questo ambiente, che sui loro schermi appare pieno di attrezzi, non venga controllato.»
Una panca scaturì dalla parete alla destra dei Durant. «Sedetevi, se siete stanchi,» li invitò Glisson. Il Cyborg indicò i cavi che lo collegavano al computer. «Io mi sono seduto solo per controllare quest’ambiente mentre parliamo.» Sorrise rigidamente, come a voler sottolineare che i Durant dovevano rendersi conto che i Cyborg erano immuni alla stanchezza.
Harvey fece sedere sulla panca la moglie, mentre Lizbeth gli segnalava con le dita, «Fai attenzione. Glisson ci sta nascondendo qualcosa.»
Glisson si voltò leggermente per guardarli bene in faccia. «Voglio un rapporto verbale completo. Non omettete alcun particolare, per quanto esso vi possa sembrare trascurabile. La mia capacità di assorbire dati è illimitata.»
I due iniziarono a raccontare quello di cui erano stati testimoni durante l’operazione, alternandosi continuamente, come tutti i bravi Corrieri avevano imparato a fare. Durante il loro racconto, Harvey provò la strana sensazione che lui e Lizbeth si fossero trasformati in parti dei meccanismi del Cyborg. Glisson rivolgeva le domande in maniera così meccanica, e loro rispondevano in modo così spassionato, oggettivo. Harvey doveva continuare a ripetere a se stesso, È di nostro figlio che stiamo parlando.
Infine Glisson disse, «Sembra non esserci alcun dubbio che ci troviamo di fronte ad un embrione fertile immune al gas. Il vostro rapporto non fa altro che completare il quadro. Abbiamo altri dati, capite.»
«Non sapevo che lo specialista fosse uno dei nostri,» disse Lizbeth.
Ci fu una pausa, mentre gli occhi di Glisson divenivano ancora più vacui del solito. I Durant ebbero quasi l’impressione di vedere formule matematiche incomprensibili lampeggiare nei circuiti cerebrali del Cyborg. Correva voce che i Cyborg pensassero quasi esclusivamente in termini matematici dei più astrusi, che all’occorrenza traducevano in linguaggio comune.
«Lo specialista non era uno dei nostri,» stabilì Glisson. «Ma lo diventerà presto.»
Quale algoritmo ha generato questa conclusione? si chiese Harvey. «E il nastro dell’operazione?», chiese subito dopo.
«È stato distrutto,» rispose Glisson. «Proprio in questo momento, il vostro embrione viene trasferito in un luogo sicuro. Lo raggiungerete. Presto.» Dalla labbra meccaniche del Cyborg sfuggì un risolino.
Lizbeth rabbrividì. Harvey percepì il nervosismo della moglie dalla mano che le stringeva. «Nostro figlio è al sicuro?»
«Sì,» replicò Glisson. «I nostri piani prevedono che la sua sicurezza sia fuori questione.»
«In che modo?» volle sapere Lizbeth.
«Lo capirete presto,» disse Glisson. «Si tratta di un metodo antico e affidabile. Ma siate certi di questo: gli embrioni fertili sono armi di grande valore. E noi non mettiamo mai a rischio le nostre armi migliori.»
Lizbeth segnalò al marito, «L’operazione — chiediglielo adesso.»
Harvey si inumidì le labbra con la lingua, disse, «Ci sono… quando viene chiamato uno specialista della Centrale… di solito significa che l’embrione verrà trasformato in un Optimate. Loro hanno… nostro figlio è…»
Le narici di Glisson si allargarono. Il volto assunse un’espressione di superiorità: per un Cyborg quell’ignoranza era un vero e proprio insulto. Con voce fredda spiegò, «Anche volendo limitarci ad azzardare delle ipotesi, avremmo bisogno della registrazione completa, inclusi i dati sugli enzimi somministrati. Ma il nastro è andato distrutto. Soltanto lo specialista conosce con certezza l’esito dell’operazione. Dobbiamo interrogarlo.»
Lizbeth disse, «Svengaard o l’infermiera addetta al computer avrebbero potuto dire qualcosa che…»
«Svengaard è uno sciocco,» la interruppe Glisson. «L’infermiera è morta.»