Ma perché ho accettato il loro invito? si chiese. Di certo non l’aveva fatto per le velate promesse che gli prospettavano una vita prolungata e nuove e immediate conoscenze. Ovviamente, dietro a tutto questo c’erano i Cyborg, e lui sospettava che la guida potesse essere uno di loro. La maggior parte degli Optimati e dei Servitori di rango superiore tendevano a considerare come delle sciocchezze le voci che giravano tra la Gente sull’esistenza dei Cyborg, ma Potter non si era mai unito a coloro che dubitavano o si burlavano di esse. Ma non avrebbe saputo spiegarne il motivo, così come, del resto, non avrebbe saputo spiegare la sua presenza in quel vicolo, circondato da pareti in plasmeld, illuminato dalla luce spettrale dei neon.
Potter sospettava di essersi infine ribellato contro una delle tre maledizioni della sua epoca: moderazione, droga e alcohol. A suo tempo, era stato tentato dai piaceri offerti dalle ultime due… per poi passare alla moderazione. Sapeva che non era una cosa normale, considerati i tempi in cui viveva. Era meglio unirsi ad uno dei culti che praticavano orge sfrenate. Ma la prospettiva di avere rapporti sessuali senza alcun scopo, e senza alcuna possibilità di procreare, lo disgustava, anche se si rendeva conto che era un segno di sfacelo finale.
Il vicolo sbucò in una delle piazze dimenticate della megalopoli: triangolare, e con un fontana che sembrava essere stata costruita in vera pietra, resa verdolina dal passare degli anni.
Gli Optimati non conoscono questo posto, pensò Potter. Disprezzavano la pietra che veniva erosa e consumata dal tempo. Loro preferivano il plasmeld, che aveva la capacità di rigenerarsi, rimanendo immutabile per l’eternità.
La guida rallentò il passo, quando furono all’aria aperta. Potter percepì un lieve odore di prodotti chimici che proveniva dall’uomo, un odore dolciastro d’olio, e notò una sottile cicatrice che correva lungo la nuca dell’altro, fino a scomparire nel colletto della camicia.
Perché non ha tentato di ricattarmi per costringermi a venire? si chiese Potter. Era tanto sicuro? C’è qualcuno che mi conosce così bene?
«Abbiamo un lavoro per lei,» disse la guida. «Un’operazione che dovrà eseguire.»
La curiosità è il mio punto debole, si rese conto Potter. Ecco perché sono qui.
La guida poggiò una mano sul braccio di Potter, lo avvertì, «Si fermi. Non si muova e aspetti.»
Il tono di voce era calmo, ma Potter percepì una tensione nascosta nelle parole della guida. Si guardò intorno, sollevò lo sguardo. Gli edifici erano privi di finestre, indistinguibili uno dall’altro. All’angolo di un altro vicolo si apriva un’ampia porta. Erano quasi arrivati alla fontana senza incontrare nessuno. Niente si muoveva nei paraggi. Si udiva soltanto il lieve rombo di macchine lontane.
«Cosa c’è?» sussurrò Potter. «Perché stiamo aspettando?»
«Non è nulla,» replicò la guida. «Lei, comunque, aspetti.»
Potter si strinse nelle spalle.
La sua mente ritornò al primo incontro che aveva avuto con quell’essere. Come facevano a sapere cosa avevo ottenuto? Dev’essere stata l’addetta al computer. Senza dubbio è una di loro.
La guida si era rifiutata di rispondere a quella domanda.
Sono venuto perché speravo che potessero aiutarmi a risolvere l’enigma dell’embrione dei Durant, pensò poi. Sospetto che siano stati loro a provocare l’intrusione dell’arginina.
Pensò a come l’aveva descritta Svengaard: aveva depositato protamina spermatica ricca di arginina nelle spirali alfa delle cellule dell’embrione. Poi c’era stato il proprio intervento: il mascheramento della cisteina, neutralizzata con il sulfidrile e la fase ATP… oligomiciana e azide… l’inibizione della reazione di scambio.
Potter alzò lo sguardo e fissò la striscia di cielo incorniciata dagli edifici che circondavano la piazza. La sua mente, concentrata sulla modifica a cui era stato sottoposto l’embrione dei Durant, si era imbattuta in una nuova ipotesi. Non vedeva più il cielo. La sua coscienza era ancora una volta immersa all’interno della cellula brulicante di vita, seguiva il mitocondrio come un pescatore subacqueo la sua preda.
«Potrei ripeterlo,» sussurrò Potter.
«Silenzio,» gli intimò la guida.
Potter annuì. Su di un qualsiasi embrione, pensò. La chiave è l’irrorazione d’arginina. E io potrei duplicare il fenomeno, basandomi sulla descrizione di Svengaard. Dèi! Potremmo creare milioni di embrioni simili a quello dei Durant: tutti fertili e vitali!
Respirò profondamente, turbato dalla consapevolezza che — una volta cancellato il nastro — la sua memoria poteva rivelarsi l’unica fonte di informazioni per poter replicare il procedimento. Svengaard e l’addetta al computer ne avevano potuto osservare soltanto una parte. Ma loro non erano stati lì dentro, immersi nel cuore della cellula.
Un qualsiasi abile bioingegnere avrebbe potuto dedurre ciò che era successo ed essere capace di replicarlo in base alle registrazioni parziali, se solo gli fosse stato sottoposto il problema. Ma chi si sarebbe curato di farlo? Di certo non gli Optimati. E neppure quello sciocco di Svengaard.
La guida tirò Potter per la manica.
Potter fissò quel volto inespressivo e dagli occhi gelidi, di cui non riusciva a riconoscere il tipo genetico.
«Siamo osservati,» lo avvertì la guida in tono stranamente piatto. «Mi ascolti molto attentamente: È in gioco la sua vita.»
Potter scosse la testa, ammiccò. Gli parve quasi che la propria coscienza fosse scomparsa; era divenuto un fascio di sensi che registravano le parole e le azioni dell’altro.
«Entrerà in quella porta davanti a noi,» gli disse la guida.
Potter si voltò, fissò la porta. Due uomini che trasportavano dei pacchi incartati emersero dal vicolo di fronte, attraversarono in fretta la piazza. La guida li ignorò. Potter udì un suono di giovani voci diventare sempre più forte nel vicolo. La guida ignorò anche quelle.
«Una volta entrato in quell’edificio, prenderà la prima porta a sinistra,» continuò poi. «Vedrà una donna addetta ad un centralino. Le dirà: "Mi fa male una scarpa". Lei risponderà: "Ognuno ha i suoi problemi". Da quel momento in poi, la donna si prenderà cura di lei.»
Potter ritrovò la voce: «E se lei… non è lì?»
«Allora passi per la porta alle spalle della sua scrivania, attraversi l’ufficio, e troverà un corridoio. Giri a sinistra e raggiunga il retro dell’edificio. Vi troverà un uomo che indossa l’uniforme da supervisore al carico, a strisce grigie e nere. Ripeterà con lui la procedura che le ho illustrato.
«E lei?» chiese Potter.
«Di questo non deve preoccuparsi. Adesso, si sbrighi!» La guida gli diede uno spintone.
Potter barcollò verso la porta proprio mentre dal vicolo spuntava una donna in uniforme da insegnante che guidava una fila di bambini, che lo separò dalla porta.
I sensi sconvolti di Potter registrarono la scena: i bambini, tutti vestiti con pantaloncini aderenti che rivelavano le loro lunghe gambe da fenicottero. Improvvisamente lo circondarono e Potter fu costretto ad aprirsi la strada verso la porta.
Alle sue spalle, qualcuno gridò.
Potter si acquattò contro la porta, trovò la maniglia, si voltò indietro a guardare.
La guida aveva girato intorno alla fontana, che adesso la nascondeva dalla cintola in giù, ma quello che era visibile del suo corpo fu più che sufficiente a sbalordire Potter, immobilizzandolo sul posto. Il petto dell’uomo era nudo e rivelava una cupola di un bianco latteo da cui scaturiva una luce accecante.
Potter spostò lo sguardo verso sinistra, vide una fila di uomini che stavano uscendo da un altro vicolo venire carbonizzata da quella luce ardente. I bambini stavano gridando, piangevano, tentavano di ritornare nel vicolo, ma Potter li ignorò, affascinato dallo spettacolo di quella macchina assassina che lui aveva pensato fosse un essere umano.