Schruille, di solito silenzioso e meditativo, fissò Allgood e disse: «Chi altro ha eluso la nostra sorveglianza, Max?»
Allgood scoprì di non riuscire a parlare.
«I Durant sono scomparsi,» disse Schruille. «Svengaard non è stato trovato. Chi altro?»
«Nessuno, Schruille, nessuno.»
«Vogliamo che siano catturati,» gli disse l’Optimate.
«Naturalmente, Schruille.»
«Vivi,» intervenne Calapine.
«Vivi, Calapine?» ripeté Allgood.
«Se è possibile,» disse Schruille.
Allgood annuì. «Obbedisco, Schruille.»
«Adesso puoi tornare al tuo lavoro,» lo congedò quest’ultimo.
Lo schermo divenne nero.
Schruille iniziò a sfiorare i controlli inseriti nel bracciolo del suo trono.
«Cosa stai facendo?» gli chiese Nourse, notando un tono petulante nella propria voce che non gli piacque per nulla.
«Elimino i programmi di filtraggio che escludono la violenza dai nostri occhi, se non come dato astratto,» spiegò Schruille. «È giunta l’ora che osserviamo come sono veramente le terre su cui dominiamo.»
Nourse sospirò. «Se lo reputi davvero necessario.»
«Io so che è necessario.»
«Interessantissimo,» commentò Calapine.
Nourse la guardò. «Cosa ci trovi di tanto interessante in quest’oscenità?»
«L’esaltazione che provo,» rispose la donna. «È questa la cosa più interessante.»
Nourse fece ruotare il trono, voltandole le spalle, poi fissò irato Schruille. Ora era assolutamente sicuro che l’altro aveva un’imperfezione della pelle sul volto — proprio vicino al naso.
CAPITOLO DODICESIMO
Per Svengaard, cresciuto in un mondo totalmente dominato dagli Optimati, l’idea che non fossero infallibili costituiva una vera e propria eresia. Tentò di escluderla dalle proprie orecchie e dalla propria mente. Non essere infallibili significava essere soggetti alla morte. Ma questo capitava solo alle classi inferiori, non agli Optimati. Come potevano non essere infallibili?
Conosceva il bioingegnere che sedeva di fronte a lui, nella pallida luce dell’alba che filtrava attraverso strette fessure nel soffitto a cupola. Quell’uomo era Toure Igan, uno dei medici d’élite della Centrale, a cui venivano sottoposti soltanto i problemi di bioingegneria più delicati e complessi.
La stanza che occupavano era un piccolo spazio ricavato tra le pareti di un condotto d’aria che serviva i sotterranei del Complesso delle Cascate. Svengaard sedeva in una poltrona piuttosto confortevole, ma aveva le braccia e le gambe legate. Passava altra gente, superando il tavolo a cui sedeva Igan. Portavano pacchi dall’aria strana, e nella maggior parte dei casi ignoravano sia Igan sia il suo compagno.
Svengaard studiò i lineamenti scuri e intensi di Igan. Le rughe sul viso dell’uomo tradivano l’inizio dello squilibrio enzimico. Stava iniziando a invecchiare. Ma gli occhi avevano ancora il colore azzurro del cielo estivo, erano ancora giovani.
«Lei deve scegliere da che parte stare,» gli aveva appena detto Igan.
Svengaard permise alla sua attenzione di vagare. Passò un uomo che portava un palla metallica dorata. Da una delle tasche spuntava una corta catenella d’argento da cui pendeva un feticcio della fertilità a forma di lingam.
«Lei deve rispondermi,» lo esortò Igan.
La gente continuava a passare per la piccola stanza. Il fatto che tutti indossassero la stessa uniforme iniziò a innervosire Svengaard. Chi era questa gente? Che facessero parte dell’Associazione Clandestina dei Genitori, questo era ovvio. Ma chi erano?
Una donna lo sfiorò. Svengaard alzò lo sguardo su un sorriso abbagliante scoccato da un volto nero, riconobbe una Zeek, il viso molto simile a quello di Potter ma dalla tinta ancora più scura… un errore nel genotipo. Al polso destro la donna portava un braccialetto di capelli umani biondi. Svengaard continuò a fissare il braccialetto finché la donna non girò un angolo, scomparendo alla vista.
«Ormai è guerra aperta,» disse Igan. «Lei deve credermi. La sua vita dipende da questo.»
La mia vita? si chiese Svengaard. Tentò di pensare alla propria vita, di individuarne le peculiarità. Aveva una moglie terziaria, poco più di una Compagna, una donna come lui a cui non era stato mai concesso il permesso di generare. Per un istante, non riuscì a ricordare i lineamenti del volto della moglie: nella sua memoria si confondevano con quelli di mogli e Compagne che aveva avuto in precedenza.
Lei non è la mia vita, si rese conto. Ma allora chi è la mia vita?
Era cosciente di essere stanchissimo, e di soffrire dei postumi dei narcotici che i suoi catturatori gli avevano somministrato durante la notte. Ricordava le mani che l’avevano afferrato, lo sguardo sbalordito che aveva dato alla parete che non poteva essere una porta e che invece lo era, lo spazio illuminato alle spalle di essa. E ricordava di essersi risvegliato in quel luogo, mentre Igan gli sedeva di fronte.
«Non le ho nascosto niente,» continuò Igan. «Le ho detto tutto. Potter è riuscito a malapena a salvare la vita. Per quanto riguarda lei, è già stato diramato l’ordine di arrestarla. L’infermiera addetta al computer è morta. Molte persone sono morte. E ne moriranno ancora. Devono essere sicuri, non capisce? Non possono lasciare nulla al caso.»
Cos’è la mia vita? si chiese Svengaard. E pensò al suo confortevole alloggio, agli oggetti d’arte e ai video d’intrattenimento, alle opere scientifiche di consultazione, agli amici, alla vita piatta e sicura che la sua posizione gli permetteva di condurre.
«Ma dove andrò?» chiese Svengaard.
«Per lei è stato preparato un posto.»
«Ma nessun luogo è al sicuro da loro,» ribatté Svengaard. Pronunciando quelle parole, per la prima volta si rese conto di quanto fosse intenso il suo risentimento nei confronti degli Optimati.
«Ci sono molti posti sicuri,» spiegò Igan. «Loro fanno solo finta di essere dotati di percezioni super-umane. In effetti, il loro potere si basa sulla tecnologia — macchine e strumenti — e su di un servizio segreto di sorveglianza. Ma le macchine e gli strumenti possono anche essere manomessi, adoperati per scopi affatto diversi. E gli Optimati dipendono dalla Gente per commettere atti di violenza.»
Svengaard scosse la testa. «Quel che mi sta dicendo è assurdo.»
«Tranne un particolare,» replicò Igan. «Loro sono come noi: ognuno dotato di una personalità individuale. E questo lo sappiamo per averlo sperimentato.»
«Ma perché dovrebbero fare le cose di cui li accusa?» protestò Svengaard. «Non è ragionevole. Loro sono buoni con noi.»
«Il loro unico interesse è quello di continuare ad esistere,» gli spiegò Igan. «E sono sempre sull’orlo del baratro. Fino a quando non avvengono cambiamenti significativi nell’ambiente che li circonda, continueranno a vivere… indefinitivamente. Ma non appena avverrà un qualche mutamento significativo, essi diventeranno come noi: soggetti ai capricci della natura. Per essi, capisce, non può esistere alcuna natura, se non sottomessa al loro volere.»
«Non ci credo,» insisté Svengaard. «Loro ci amano e si prendono cura di noi. Consideri quel che hanno fatto per noi.»
«L’ho fatto.» Igan scosse il capo. Svengaard si stava dimostrando ancora più stolido di quanto si fossero aspettati. Rifiutava l’evidenza per rifugiarsi in vecchie formule.
«Voi volete che periscano,» lo accusò Svengaard. «Perché?»
«Perché ci hanno privato della possibilità di evolverci,» rispose Igan.