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Con esitazione, Lizbeth prese la capsula. Era fredda e gelatinosa. Le comunicò una sensazione di disgusto. Volle scagliare quella cosa contro Igan, ma poi Harvey le sfiorò una guancia.

«Forse faresti meglio a prenderla,» le disse il marito. «Per il bene del bambino.»

Lizbeth tese la mano, schiacciò la capsula contro la parte inferiore della lingua, poi la inghiottì. Se Harvey era d’accordo, quella era la cosa giusta da fare. Ma non le piacque l’espressione offesa e perplessa negli occhi del marito.

«Adesso si rilassi,» disse Igan. «Farà effetto molto in fretta — tre o quattro minuti e si sentirà perfettamente tranquilla.» Si sedette di nuovo e lanciò una rapida occhiata a Svengaard. La figura legata era apparentemente ancora priva di sensi; il petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare.

Era ormai da molto tempo che Svengaard era sempre più cosciente della fame e del movimento che faceva rotolare il suo corpo contro una superficie solida. E il movimento comunicava anche una sensazione di velocità. Percepiva confusamente un odore di sudore umano, udiva un rombo di turbine. Quel suono stava iniziando a imporsi alla sua coscienza. Dalle palpebre pesanti filtrava una luce fievole. Sentiva di avere un bavaglio in bocca, le braccia e le gambe legate.

Svengaard aprì gli occhi.

Per un istante, non riuscì a mettere a fuoco le immagini, poi si scoprì a fissare un soffitto basso, illuminato da un minuscolo neon, al di sotto del quale si notava la griglia di un comunicatore accanto a una spia color rubino. Il soffitto gli sembrava troppo vicino e sulla destra aveva notato una forma confusa — una gamba tesa su di lui. Il neon emetteva un bagliore giallastro a malapena sufficiente a diradare l’oscurità.

La spia iniziò a lampeggiare freneticamente.

«Un posto di blocco!» sibilò Igan. «Silenzio, tutti quanti!»

Il velivolo iniziò a rallentare. Le turbine diminuirono i giri e il loro rombo si trasformò in un lamento. Infine l’hovercraft si fermò, mentre le turbine si spegnevano con un sussurro.

Lo sguardo di Svengaard esaminò in un lampo il luogo in cui si trovava. Alla sua destra, sopra di lui, una panca… su cui erano sedute due persone. Un bordo metallico sporgeva dal supporto della panca accanto la sua guancia. Con cautela, Svengaard mosse la testa verso il bordo, sentì attraverso la benda che la sua carne era entrata in contatto con esso. Spinse delicatamente la testa in avanti e il bavaglio si abbassò leggermente. Il bordo gli graffiò la guancia, ma Svengaard ignorò il dolore. Un’altra leggera spinta e il bavaglio si abbassò ancora di una frazione di millimetro. Svengaard si guardò intorno, vide sopra di lui, alla sua sinistra, il volto di Lizbeth. La donna aveva gli occhi chiusi, le mani che le coprivano la bocca. Sembrava terrorizzata.

Svengaard mosse ancora una volta la testa.

In lontananza, da qualche parte, si udirono delle voci: domande rivolte in tono tagliente, mormoni di risposta.

Le mani di Lizbeth smisero di coprirle la bocca, rivelando labbra che si muovevano senza emettere un suono.

Le voci adesso tacevano.

Lentamente, l’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard voltò bruscamente la testa. La benda che teneva al suo posto il bavaglio si spezzò. Svengaard lo sputò via e urlò, «Aiuto! Aiuto! Sono prigioniero! Aiuto!»

Igan e Boumour balzarono in piedi per la sorpresa. Lizbeth urlò, «No! Oh, no!»

Harvey si scagliò in avanti, sferrò un pugno contro la mascella di Svengaard, mentre con l’altra mano gli tappava la bocca. Rimasero immobili, in una terribile attesa, mentre l’hovercraft continuava a guadagnare velocità.

Igan emise un respiro tremulo, fissò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, che avevano assunto un’espressione selvaggia.

Dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Cosa è successo? Non sapete neppure osservare le precauzioni più semplici?»

Il tono di voce accusatorio, ma nel contempo privo di emozioni, gelò Harvey. Si chiese perché l’autista si fosse rivolto loro in quel modo, invece di annunciare se erano stati scoperti oppure no. Poi si rese conto che Svengaard giaceva svenuto sotto di lui. Sperimentò l’impulso selvaggio di strozzarlo seduta stante, ebbe quasi l’impressione di stringere tra le mani la gola dell’uomo.

«Ci hanno sentito?» sussurrò Igan.

«Apparentemente no,» rispose l’autista, con voce resa gracchiante dal comunicatore. «Non noto alcun segno d’inseguimento. Presumo che eviterete di commettere di nuovo una simile imprudenza. Per favore, mi spieghi cosa è successo.»

«Svengaard si è svegliato prima di quanto ci aspettassimo.»

«Ma era imbavagliato.»

«In qualche modo… è riuscito a liberarsi del bavaglio.»

«Forse dovreste ucciderlo. È ovvio che con lui il ricondizionamento non funzionerà.»

Harvey si allontanò da Svengaard. Ora che il Cyborg aveva ventilato quella prospettiva, lui non aveva più alcuna voglia di uccidere Svengaard. Harvey si chiese chi fosse colui che si trovava nella cabina di guida. I Cyborg sembravano tutti uguali, grazie alla loro intelligenza computerizzata tanto lontana da quella umana, ma l’autista era ancora più distaccato del solito.

«Rifletteremo… su cosa fare,» rispose Igan.

«Svengaard è stato neutralizzato?»

«Sì, è svenuto. Ora non darà più fastidi.»

«Certo non grazie a lei,» commentò Harvey fissando Igan. «Era proprio sopra di lui.»

Il viso di Igan impallidì. Ricordò di essere rimasto immobile, dopo essere balzato in piedi per la paura e la sorpresa. Fu travolto da un moto di rabbia. Con che diritto quel bifolco osava rimproverare un dottore? «Mi dispiace, ma temo di non essere un uomo incline alla violenza,» rispose freddamente.

«Allora farà meglio a diventarlo,» ribatté Harvey. Sentì che Lizbeth gli posava la mano sulla spalla e le permise di farlo sedere di nuovo sulla panca. «Se ha ancora un po’ di quella roba che ha usato per addormentare Svengaard, sarà meglio che gliene somministri un po’, prima che si svegli di nuovo.»

Igan si rimangiò una risposta tagliente.

«È nella borsa sotto la nostra panca,» disse Boumour. «Un suggerimento ragionevole.»

A malavoglia, Igan cercò a tentoni una siringa e iniettò a Svengaard il narcotico.

Ancora una volta dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Attenzione! Anche se non ci hanno inseguito immediamente, non dobbiamo presupporre che non abbiano rilevato le vostre voci. Di conseguenza, sto eseguendo il Piano Gamma.»

«Chi è l’autista?» bisbigliò Harvey.

«Non ho visto chi hanno programmato per quest’incombenza,» disse Boumour. Studiò Harvey. Quella domanda era decisamente appropriata. Quel Cyborg era strano, molto più della media. Gli avevano detto che l’autista sarebbe stato dotato di un computer eccezionalmente veloce, una macchina progettata per aumentare al massimo le probabilità di successo della loro fuga. Ma chi aveva scelto il programma?

«Cos’è il Piano Gamma?» sussurrò Lizbeth.

«Stiamo abbandonando il percorso in precedenza scelto,» disse Boumour. Fissò la parete di fronte a lui. Abbandonare il percorso scelto… questo significava che ormai dipendevano esclusivamente dall’abilità dell’autista… e dalle eventuali cellule dell’Associazione che non fossero state scoperte. Ovviamente ognuna di quelle cellule poteva essere già sorvegliata dalla Sicurezza. Anche l’animo di Boumour, di solito saldo come una roccia, iniziò a provare il morso della paura.

«Autista!» chiamò Harvey.

«Silenzio,» replicò bruscamente il Cyborg.

«Si attenga al piano originale,» ordinò Harvey. «Là dove eravamo diretti sono dotati di attrezzature mediche, nel caso mia moglie…»

«La salvezza di sua moglie non è considerata il fattore principale,» rispose l’autista. «I membri che agiscono lungo il percorso programmato non devono essere scoperti. Non mi distragga con le sue obiezioni. Il Piano Gamma verrà eseguito.»