Poi non fu più visibile alcuna luce. Rimase soltanto la nebbia verde, che continuava a strisciare sotto la luce impassibile della luna.
Schruille osservò gli strumenti, che fornivano cifre sempre decrescenti… per poi indicare tutti zero. Nulla permetteva di osservare l’agonia della Gente che periva nei condotti di collegamento, nei sotterranei, nelle strade… nelle fabbriche… nei luoghi di ricreazione.
Nourse stava piangendo.
Sono morti, sono tutti morti, pensò. Morti. Nella sua mente quel termine aveva assunto curiosamente una valenza neutra. Poteva venir applicato ai batteri… o alle erbacce. Bisognava sterilizzare un campo prima di piantarvi fiori stupendi. Perché sto piangendo? Tentò di ricordare se avesse mai pianto prima di quel momento. Forse, una volta l’ho fatto. Ma è stato tanto tempo fa… tanto tempo… fa… ho pianto… ho pianto. Improvvisamente quelle parole avevano perso ogni significato. Ecco il problema di una vita senza fine: dopo troppe ripetizioni, tutto perde significato.
Schruille studiò la nebbia verde sugli schermi. Qualche riparazione e potremo mandare altra Gente, pensò. Ripopoleremo Seatac con Gente il cui genotipo sia meno difettoso. Ma poi si chiese come avrebbero fatto a trovare individui del genere. Gli strumenti del Globo rivelavano che Seatac era solo una delle tante manifestazioni del problema. Dappertutto, i sintomi erano gli stessi.
Lui ne comprendeva la causa: l’isolamento di ogni generazione dalle altre. La Gente era ossessionata dalla mancanza di tradizioni, dall’assenza di continuità… i suoi appartenenti sembravano comunicare nonostante tutti i tentativi messi in atto dagli Optimati per impedirlo. E i detti che fiorivano tra la Gente mostravano quanto fosse radicata in profondità quella necessità di comunicazione.
Schruille citò a se stesso: Quando Dio creò il primo uomo insoddisfatto, lo cacciò fuori dalla Centrale.
Ma siamo stati noi a creare questa Gente, pensò Schruille. Dunque, perché abbiamo creato degli uomini insoddisfatti?
Si girò e si accorse che Nourse e Calapine stavano piangendo.
«Perché piangete?» domandò loro.
Ma i due Optimati rimasero in silenzio.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Non appena terminò l’ultima sopraelevata, il veicolo si allontanò dal tunnel che correva sotto la montagna e iniziò a percorrere l’ampia pista di Lester che saliva, attraverso vecchie gallerie e un altopiano spazzato dal vento, fino alla riserva naturale e ai luoghi di villeggiatura riservati alle coppie in permesso di procreazione. Lì non c’erano luci artificiali, solo il bagliore della luna e gli accecanti raggi dei fari del veicolo.
Ogni tanto incrociavano qualche omnibus che scendeva, pieno di coppie melanconiche e silenziose — la loro vacanza era ormai terminata — che tornavano alla megalopoli. Anche se qualcuno tra loro avesse notato l’hovercraft, l’avrebbe senza dubbio scambiato per un veicolo incaricato dei rifornimenti.
In una curva al di sotto dello Homish Resort Complex, l’autista-Cyborg modificò l’assetto dell’hovercraft. Le turbine furono spinte alla massima velocità e il loro rombo divenne stridulo ed assordante. Iniziarono di nuovo i sobbalzi. Il veicolo aveva abbandonato il fondo stradale.
All’interno della stretta scatola in cui erano nascosti, Harvey si resse alla panca con una mano e con l’altra afferrò Lizbeth per impedirle di cadere, mentre l’hovercraft sussultava e sobbalzava seguendo il percorso di una linea ferrata fuori uso da tempo immemorabile, sfondava una barriera di arbusti e cominciava a percorrere uno stretto sentiero creato dagli animali, attraversando cespugli di rododendri.
«Cosa succede?» gemé Lizbeth.
La voce dell’autista rispose dal comunicatore, «Abbiamo lasciato la strada. Non avete nulla da temere.»
Nulla da temere, pensò Harvey. Quell’idea gli parve tanto ridicola che quasi ridacchiò, prima di rendersi conto che era sull’orlo di un attacco isterico.
L’autista aveva spento tutte le luci esterne del veicolo, e ora per guidare il veicolo si basava soltanto sulla luna e sulla sua vista ad infrarossi.
La sua visione potenziata gli faceva apparire il sentiero come la lucente scia lasciata da una lumaca attraverso la boscaglia. Il veicolo seguì quella pista per circa due chilometri, lasciandosi dietro una scia di polvere e foglie, fino al punto in cui il sentiero incrociava una strada, usata dai veicoli della forestale, il cui fondo era abbastanza largo e agevole. Qui girò a destra, sibilando come un enorme mostro preistorico, risalì faticosamente lungo il fianco di una collina, ne ridiscese rombando l’altro versante, per poi raggiungere la cima della collina seguente, su cui si fermò.
Le turbine si spensero con un gemito e il veicolo si adagiò al suolo. L’autista uscì dalla cabina di guida, una figura massiccia e tarchiata e con braccia artificiali adattissime al compito che l’attendeva. Strappò via uno dei pannelli laterali e cominciò a gettare il carico in un profondo burrone invaso da piante di cicuta.
All’interno del loro nascondiglio, Igan balzò in piedi, avvicinò la bocca al comunicatore e sibilò, «Dove siamo?»
Silenzio.
«È una domanda stupida,» commentò Harvey. «Come fa a sapere perché si è fermato?»
Igan ignorò l’insulto. Dopo tutto, chi lo aveva pronunciato era soltanto un rozzo appartenente alle classi inferiori. «Sta spostando il carico,» disse Igan. Si sporse verso Harvey e batté la mano contro una parete del nascondiglio. «Cosa sta succedendo lì fuori?»
«Oh, si sieda,» esclamò Harvey. Poggiò una mano sul petto di Igan e spinse. Il medico barcollò all’indietro, finendo sulla panca sul lato opposto.
Igan fece per scagliarsi contro Harvey, il volto scuro per la rabbia, gli occhi sfavillanti, ma Boumour lo trattenne e disse con voce tonante, «Calma, amico Igan.»
Igan si rimise a sedere. Lentamente il suo volto assunse un’espressione paziente. «È strano,» rifletté, «come le emozioni si impongano nonostante…»
«Passerà,» fece Boumour.
Harvey cercò la mano di Lizbeth, le segnalò, «Il petto di Igan — è convesso e duro come plasmeld. L’ho sentito attraverso la giacca.»
«Pensi che sia un Cyborg?»
«Respira in modo normale.»
«E prova ancora emozioni. In lui leggo della paura.»
«Sì… ma…»
«Staremo attenti.»
Boumour disse, «Durant, lei dovrebbe nutrire maggiore fiducia nei nostri confronti. Il Dottor Igan ha dedotto che l’autista non starebbe scaricando il veicolo, se non fosse convinto che siamo al sicuro.»
«E come sappiamo che sta scaricando?» replicò Harvey.
Un’espressione cauta turbò il viso di solito tranquillo di Boumour.
Harvey la interpretò, poi sorrise.
«Harvey!» gli segnalò Lizbeth. «Pensi che…»
«No, là fuori c’è il nostro autista,» la rassicurò il marito con lo stesso sistema. «Dall’odore, direi che siamo in qualche riserva naturale. Inoltre non abbiamo sentito nessun rumore di lotta. Ed è impossibile catturare un Cyborg senza lottare.»
«Ma dove siamo?» gli chiese Lizbeth.
«Tra le montagne,» la informò Harvey. «E considerato il viaggio, ho l’impressione che siamo molto lontani dalle strade più trafficate.»
Improvvisamente il loro nascondiglio sussultò e si spostò di lato. Il neon si spense. Nell’oscurità, la parete alle spalle di Harvey venne staccata. L’uomo strinse a sé Lizbeth, si voltò, fissò un panorama buio… illuminato soltanto dalla luna… e la forma massiccia dell’autista, profilata contro le luci lontane della megalopoli. La luna inargentava le cime degli alberi sotto di loro e nell’aria aleggiava l’odore resinoso degli aghi di pino sollevati dal passaggio dell’hovercraft. I dintorni erano immersi in un silenzio profondo, come se la natura stesse studiando quegli intrusi.