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«Uscite,» ordinò l’autista.

Il Cyborg si girò. Harvey scorse i suoi lineamenti, improvvisamente illuminati dal chiaro di luna, esclamò, «Glisson!»

«Le porgo i miei saluti, Durant,» disse Glisson.

«Perché è stato scelto proprio lei?» gli chiese Harvey.

«E perché no?» ribatté Glisson. «Ora scendete di lì.»

Harvey protestò, «Ma mia moglie non è in grado di…»

«So delle condizioni di sua moglie, Durant. Ma è passato del tempo dall’intervento che ha subito. Può camminare, se non si sforza troppo.»

Igan mormorò nell’orecchio di Harvey, «Sua moglie non avrà problemi. La faccia alzare con gentilezza e la sorregga.»

«Io… sto bene,» disse Lizbeth. «Ecco.» Poggiò un braccio sulla spalla di Harvey. Insieme, scesero a terra.

Igan li seguì, chiese, «Dove siamo?»

«Da qualche parte, diretti verso qualche altro posto,» replicò Glisson. «Come sta il nostro prigioniero?»

Boumour gli rispose dall’interno del nascondiglio. «Sta rinvenendo. Aiutatemi a farlo uscire.»

«Perché ci siamo fermati?» chiese Harvey.

«Dobbiamo affrontare una salita molto ripida,» disse Glisson. «Meglio sbarazzarci del carico. L’hovercraft non è fatto per un lavoro del genere.»

Boumour e Igan li superarono trasportando Svengaard, che deposero contro un tronco d’albero sul ciglio del sentiero.

«Aspettate qui, mentre sgancio il rimorchio,» disse Glisson. «E riflettete su Svengaard; forse dovremmo abbandonarlo.»

Sentendo pronunciare il nome, quest’ultimo aprì gli occhi, si scoprì a fissare le luci lontane della megalopoli. Gli faceva male la mascella, a causa del pugno sferratogli da Harvey, e la testa gli pulsava. Aveva fame e sete. Le mani legate avevano ormai perso ogni sensibilià. Un intenso odore di aghi di pino colpì le sue narici. Starnutì.

«Forse dovremmo davvero sbarazzarci di Svengaard,» disse Igan.

«Io penso di no,» replicò Boumour. «È un uomo istruito, un possibile alleato. E avremo bisogno di uomini istruiti.»

Svengaard diresse lo sguardo verso il punto da cui provenivano le voci. Gli altri erano accanto all’hovercraft, una sagoma lunga e argentea davanti a un tozzo rimorchio. Poi si udì un rumore metallico. Il rimorchio scivolò all’indietro per almeno due metri prima di fermarsi contro un monticello di terriccio.

Glisson ritornò, si accovacciò accanto a Svengaard. «Qual è la vostra decisione?» chiese il Cyborg. «Lo porteremo con noi oppure lo uccideremo?»

Harvey deglutì, sentì che Lizbeth gli stringeva la mano.

«Portiamolo con noi ancora per un po’,» propose Boumour.

«A patto che non ci crei altri problemi,» intervenne Igan.

«Potremmo sempre usare parti della sua anatomia,» disse Glisson. «Oppure possiamo ricavare un clone e condizionarlo.» Il Cyborg si alzò. «Non è necessario prendere una decisione immediata. Meglio rifletterci sopra con calma.»

Svengaard rimase in silenzio, gelato dalla impassibile crudeltà delle parole del Cyborg. Che uomo duro e brutale, pensò. Un tipo spietato, pronto a ogni violenza. Un vero killer.

«Bene, allora salite tutti in cabina,» ordinò Glisson. «Abbiamo un lungo…» Il Cyborg si interruppe e fissò la megalopoli.

Svengaard si girò verso i grappoli di luci bianco-azzurre, che ardevano gelide in lontananza. Un bagliore giallo era comparso tra le luci alla sua sinistra. Un altro fiorì dietro il primo: un gigantesco falò profilato contro le lontani montagne illuminate dal chiaro di luna. Altri bagliori spuntarono sulla destra. Un’ondata di ultrasuoni scosse il corpo di Svengaard e trasse una lamentosa dissonanza metallica dalla carrozzeria del veicolo.

«Cosa sta succedendo?» sibilò Lizbeth.

«Silenzio!» ordinò Glisson. «Tutti zitti e osservate.»

«Dèi della vita,» mormorò Lizbeth. «Cosa c’è?»

«La megalopoli sta morendo,» spiegò Boumour.

Un’altra ondata di ultrasuoni scosse l’hovercraft.

«Fa male,» si lamentò Lizbeth.

Harvey l’attirò a sé, mormorò, «Che siano dannati!»

«Quassù fa male,» commentò Igan con tono freddamente scientifico. «Ma laggiù uccide.»

Una nebbia verde stava emergendo dalla boscaglia a una decina di chilometri di distanza. Fuoriusciva e scendeva verso il basso come un mare furioso, sotto l’impassibile luce della luna, sommergendo ogni cosa: le colline, le luci simili a gemme, i bagliori dorati.

«Pensavate che avrebbero usato la nebbia della morte?» chiese Boumour.

«Sapevamo che l’avrebbero usata,» rispose Glisson.

«Suppongo fosse prevedibile che avrebbero deciso di sterilizzare l’intera zona,» disse Boumour.

«Ma cos’è quella nebbia?» volle sapere Harvey.

«Viene emessa dalle griglie usate per diffondere il gas contraccettivo,» spiegò Boumour. «Basta che una sola particella sfiori la pelle… ed è finita.»

Igan si avvicinò a Svengaard, lo fissò. «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi,» recitò in tono amaramente sardonico.

«Cosa succede?» gli chiese Svengaard.

«È sordo? O forse cieco? I suoi tanto adorati Optimati stanno sterilizzando Seatac. Aveva degli amici, laggiù?»

«Amici?» ripeté Svengaard in tono incerto. Si voltò a guardare la nebbia verde. Tutte le luci si erano ormai spente.

Una terza scarica di ultrasuoni li scosse, fece tremare il veicolo, e perfino il suolo.

«Cosa ne pensa adesso di loro?» chiese Igan.

Svengaard scosse la testa, incapace di rispondere. Si chiese il perché non fosse dotato di un interruttore di sicurezza emotivo con cui tagliare fuori dalla sua coscienza quella scena. Ma i suoi sensi, in qualche modo divenuti anormali, lo costringevano ad assistere a quel dramma. Tuttavia, lo stavano semplicemente ingannando. Si trattava soltanto di un inusuale caso di auto-suggestione.

«Perché non mi risponde?» chiese Igan.

«Lo lasci in pace,» intervenne Harvey. «Anche noi siamo sconvolti. E lei, non prova nulla?»

«Ma lui vede quel che sta succedendo, e non ci crede,» replicò Igan.

«Come hanno potuto farlo?» bisbigliò Lizbeth.

«Istinto di conservazione,» spiegò Boumour. «Una caratteristica che il nostro amico Svengaard non possiede; ma forse è stata eliminata dal suo corredo genetico.»

Svengaard fissava la nube verde. Si muoveva con un tale silenzio, una tale furtività. La distesa buia che un tempo era fiorita di luci e di vita lo aveva reso terribilmente cosciente della propria mortalità. Pensò agli amici che aveva laggiù, ai suoi colleghi dell’ospedale, agli embrioni, alla moglie.

Erano morti tutti.

Svengaard si sentì svuotato, incapace di provare una qualsiasi emozione. Riusciva soltanto a domandarsi, Qual era il loro scopo?

«Salite nella cabina di guida,» ripeté Glisson. «Sistematevi nel retro, sul pavimento.»

Delle mani dai gesti bruschi sollevarono Svengaard — lui riconobbe Boumour e Glisson. L’impassibilità dell’autista confondeva Svengaard. Fino a quel momento, non aveva mai incontrato un essere umano tanto distaccato.

I due lo scaricarono sul pavimento dell’hovercraft. Il bordo aguzzo del supporto di un seggiolino gli si piantò in un fianco. Dei piedi lo sfiorarono. Qualcuno gli urtò lo stomaco con un piede, lo ritrasse immediatamente. Le turbine vennero attivate. Una portiera venne chiusa. L’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard sprofondò in una specie di torpore.

Lizbeth, che era seduta sopra di lui, sospirò profondamente. Udendo quel sospiro, Svengaard scoprì a malincuore di provare un senso di compassione per la donna, la prima emozione che provava dopo aver osservato la morte della megalopoli.

Perché l’hanno fatto? si chiese. Perché?