Nel buio, Lizbeth strinse la mano di Harvey. Ogni tanto, grazie al chiaro di luna, scorgeva il profilo di Glisson, seduto davanti a lei. I movimenti essenziali del Cyborg, la sensazione di potere trasmessa da ogni suo gesto, la turbarono profondamente. La cicatrice dell’operazione subita le prudeva. Voleva grattarsi, ma aveva paura di richiamare l’attenzione degli altri su di sé. Il Servizio dei Corrieri esisteva da lungo tempo, ed era riuscito a ingannare sia i Cyborg che gli Optimati, nella maggior parte dei casi facendo ricorso alla dissimulazione. Lizbeth, impaurita, si rifugiò ancora una volta in essa.
Attraverso il loro codice segreto, Harvey le segnalò, «Ora riesco a leggere Boumour e Igan. Sono diventati Cyborg di recente. Probabilmente sono dotati soltanto di collegamenti provvisorii con i computer nei loro corpi. Stanno ancora cercando di capire il prezzo che hanno dovuto pagare, tentano di reprimere le loro naturali emozioni umane, di contraffarle.»
Lizbeth rifletté su quelle affermazioni, esaminando in base ad esse il comportamento dei due medici. Spesso suo marito leggeva le persone molto meglio di quanto era in grado di fare lei. Di conseguenza, lesse ancora una volta Igan e Boumour.
«Li hai letti?» gli chiese Harvey mediante la pressione delle dita.
«Sì, e hai ragione.»
«Ciò significa che hanno rotto definitivamente con la Centrale. Non potranno più tornare indietro.»
«Questo spiega Seatac,» segnalò lei. Poi iniziò a tremare.
«Significa anche che non possiamo fidarci di loro,» replicò Harvey. Attirò a sé Lizbeth, cercando di consolarla.
L’hovercraft continuò a risalire faticosamente lungo le colline, evitando gli spazi aperti, seguendo antichi sentieri, occasionalmente il letto di qualche torrente. Poco prima dell’alba, svoltò a sinistra lungo una linea frangifiamme, attraversò una macchia di pini e di cedri, seguì uno stretto sentiero con le turbine che sollevavano una grossa nube di polvere e foglie secche. Glisson lo fece fermare dietro un vecchio edificio, con le pareti ricoperte di muschio e piccole finestre coperte da tende. Accanto all’edificio era visibile una breve fila di pseudo-anitre, ricoperte da una patina verdastra che dimostrava come non fossero state attivate da anni: pallide sagome illuminate dall’unico fotoglobo appeso sotto la grondaia.
Le turbine smisero di girare con un lamento. Poi gli occupanti del veicolo udirono un ronzio di macchinari e, guardando avanti a loro, scorsero una tozza e argentea torre di ventilazione svettare oltre la cima degli alberi.
Una porta ad un angolo dell’edificio si aprì. Ne uscì un uomo dalla testa grossa, dalla mascella pronunciata, e con una spalla più bassa dell’altra; si stava soffiando il naso in un fazzoletto rosso. Era vecchio, e il suo viso era una maschera ossequiosa.
Glisson disse, «È il segnale. Significa che qui siamo al sicuro… per ora.» Scese dal veicolo, si avvicinò al vecchio, tossì.
«In questi giorni circolano molti malanni,» disse il vecchio. La voce era tanto segnata dall’età quanto il viso: ansimante, in difficoltà sulle consonanti.
«Lei non è l’unico a soffrirne,» rispose Glisson.
Il vecchio si raddrizzò, l’espressione servile svanì. «Suppongo che abbiate bisogno di un nascondiglio,» disse. «Non so se questo è un posto sicuro. E non so neppure se dovrei accettare di nascondervi.»
«Qui gli ordini li do io,» ribatté Glisson. «E tu ubbidirai.»
Il vecchio studiò Glisson per un istante, poi il suo viso fu distorto da un’espressione di rabbia. «Sei un dannato Cyborg!» esclamò.
«Tieni a freno la lingua,» lo minacciò Glisson con tono piatto. «Abbiamo bisogno di cibo, e di un posto sicuro in cui trascorrere la giornata. Avrò bisogno del tuo aiuto per nascondere il nostro veicolo. Sicuramente sei pratico della zona. E ci fornirai un altro mezzo di trasporto.»
«Meglio fare a pezzi l’hovercraft, e poi seppellirlo,» disse il vecchio con voce acida. «Si è scatenato un vespaio. Ma immagino che questo voi lo sappiate.»
«È così,» gli confermò Glisson. Si girò, fece un cenno verso il veicolo. «Venite, e fate scendere anche Svengaard.»
Gli altri lo raggiunsero. Boumour e Igan sorreggevano Svengaard: sebbene gli fossero state liberate le gambe dai legami, l’uomo si reggeva in piedi a stento. Lizbeth camminava con una cautela che dimostrava come non fosse certa che l’incisione fosse guarita, anche dopo aver preso gli enzimi che avrebbero dovuto accelerarne la cicatrizzazione.
«Staremo qui durante il giorno,» annunciò loro Glisson. «Quest’uomo vi accompagnerà ai vostri alloggi.»
«Ci sono notizie da Seatac?» chiese Igan.
Glisson guardò il vecchio, ordinò, «Rispondi.»
L’uomo fece spallucce. «Un Corriere è passato di qui un paio di ore fa. Ha detto che non ci sono sopravvissuti.»
«Sa qualcosa su un certo Dottor Potter?» gracchiò Svengaard.
Glisson si voltò di scatto e lo fissò.
«Non so,» rispose il vecchio. «Che strada ha preso?»
Igan si schiarì la gola, rivolse un’occhiata rapidissima a Glisson, poi fissò il vecchio. «Potter? Penso che fosse nel gruppo che tentava di fuggire seguendo i condotti dell’energia.»
Il vecchio sbirciò la torre di ventilazione, i cui contorni divenivano ogni istante sempre più distinti, mentre l’alba spuntava sulle montagne. «Nessuno è uscito dai condotti,» rispose. «Per prima cosa, hanno spento gli impianti di ventilazione e hanno irrorato i condotti con quel gas.» Guardò Igan. «E i ventilatori hanno ripreso a funzionare da almeno tre ore.»
Glisson studiò Svengaard, gli chiese, «Perché è così interessato a Potter?»
L’altro rimase in silenzio.
«Mi risponda!» ordinò Glisson.
Svengaard tentò di deglutire. Gli doleva la gola. Si sentiva con le spalle al muro. Le parole di Glisson lo avevano fatto infuriare. Senza alcun preavviso, Svengaard si catapultò in avanti, trascinandosi dietro Igan e Boumour, e sferrò un calcio contro Glisson.
Il Cyborg lo schivò con un movimento rapidissimo, afferrò il piede del prigioniero, strappò Svengaard dalla stretta dei due bioingegneri, ruotò su se stesso, e lo scagliò lontano. Svengaard cadde sulla schiena, strusciò dolorosamente contro il terreno, si fermò. Prima che potesse fare una sola mossa, Glisson si piantò su di lui. Svengaard rimase a terra, singhiozzando.
«Perché è così interessato a Potter?» gli chiese ancora una volta Glisson.
«Vada via, via, via!» singhiozzò Svengaard.
Glisson si raddrizzò, cercò con lo sguardo Igan e Boumour. «Avete qualche spiegazione per il suo comportamento?»
Igan si strinse nelle spalle. «È una semplice reazione emotiva.»
«Forse causata dallo choc,» disse Boumour.
Harvey segnalò a Lizbeth, «Svengaard era in stato di choc, ma il suo comportamento indica che ne sta uscendo. Quei due sono dei dottori! Non riescono neppure a capire questo?»
«Glisson l’ha capito,» gli rispose la moglie. «Li sta semplicemente mettendo alla prova.»
Glisson si voltò e squadrò Harvey. La comprensione che percepì negli occhi del Cyborg provocò nell’uomo una fitta di paura.
«Sii molto prudente,» gli segnalò Lizbeth. «Sospetta di noi.»
«Portate dentro Svengaard,» ordinò Glisson.
Svengaard sollevò lo sguardo verso l’autista. Glisson, lo chiamavano i Durant. Ma il vecchio aveva affermato che era un Cyborg. Era possibile? Quei semi-uomini erano resuscitati per sfidare ancora una volta gli Optimati? Era quella la ragione della sterilizzazione di Seatac?
Boumour e Igan lo aiutarono a ralzarsi, controllarono i legacci che gli bloccavano le mani. «Cerchi di non commettere altre sciocchezze,» lo avvertì Boumour.
Anche loro sono come Glisson? si chiese Svengaard. Anche loro sono metà uomo e metà macchina? E i Durant?
Svengaard sapeva di essere sul punto di scoppiare a piangere. Isteria, si rese conto. Provocata dallo choc. Poi, assalito dal senso di colpa, iniziò a riflettere sulla sua reazione. Perché la morte di Potter mi ha colpito più di quella di un’intera Megalopoli, di quella di mia moglie e dei miei amici? Cosa rappresentava Potter per me?